Il centro di Leopoli è una bomboniera, le palazzine basse che fanno da cornice alle stradine con i binari del tram sembrano uscire direttamente da una cartolina della fine del XIX secolo. Per questo, sottoterra non ci sono grandi parcheggi, sottopassaggi, una rete metropolitana con tunnel e stazioni o locali commerciali. Al contrario, troviamo cantine normali o sottoscala nelle palazzine residenziali e vani a volte basse nei negozi. Quindi, quando suonano le sirene che avvisano dei bombardamenti, generalmente si scendono scale di pietra strette e ripide dove non si passa in più di
due alla volta e, una volta arrivati, non ci sono grandi spazi illuminati come a Kiev, ma vani poco illuminati o non illuminati affatto.

Qui per ora le sirene non suonano spesso e quindi le prendono tutti molto seriamente. Tuttavia, gli abitanti di Leopoli stanno cercando di attrezzarsi. Spesso, alla sommità delle scale che portano verso il buio, si sono installate delle postazioni di ricarica con le torce d’emergenza. In molti locali pubblici sono stati attaccati al muro fogli bianchi stampati da poco con la scritta “shelter” (rifugio) in inglese e in ucraino e delle frecce.

Insomma, si fa quel che si può perché l’impressione generale è che neanche la “capitale dell’ovest” sarà risparmiata. Senza spiegare perché, in molti ci avevano dato per certo un attacco dei russi nel fine settimana; tuttavia, alle 22 di sabato, questo non si è ancora verificato. Forse le parole di Putin a Macron hanno molto a che vedere con questa tragica certezza. Il presidente russo ha infatti dichiarato che intende “riprendersi” tutta l’Ucraina, sottolineando il fatto che non si accontenterà della parte orientale, tradizionalmente più vicina alla Russia (ma oggi, ci viene da pensare, più lontana che mai).

Ovviamente, anche queste dichiarazioni vanno lette in chiave propagandistica, come un colpo sparato nella guerra mediatica che mira da un lato a fiaccare il morale del nemico e dall’altro a ostentare superiorità. Come a dire che la conquista integrale dell’Ucraina è solo questione di tempo.

Eppure, finora le armi non hanno dato ragione al presidente russo e il morale degli ucraini lontani da Kharkiv e Mariupol è ancora alto. Talmente alto da permettergli di organizzarsi in modo piuttosto efficace. Ad esempio a Leopoli, in pieno centro città, la biblioteca comunale ora funziona da punto di raccolta provviste e all’ingresso dei ragazzi con gilet catarifrangenti arancioni e gialli raccolgono i pacchi e danno informazioni. Vicino ai portoni delle palazzine sprovviste di locali adeguati ci sono cartelli che indicano, con tanto di mappa, dove si trova il rifugio più vicino e come lo si può raggiungere.

In giro o su internet si possono trovare vademecum su come comportarsi in caso di attacco e dove riparare. Ma c’è anche chi si impegna attivamente, soprattutto tra i giovani che non intendono arruolarsi nell’esercito o nelle forze di difesa territoriale. E, va sottolineato, non sono
pochi. Centinaia di ragazzi che non hanno mai tenuto un’arma in mano e non hanno nessun interesse a farlo che però sentono lo stesso di doversi impegnare in prima persona.

È anche questo che rende così difficile comprendere l’Ucraina di oggi a chi non la conosce, ovvero il sentimento di appartenenza diffuso a tutti i livelli e in tutti gli strati sociali nella popolazione locale. I nostri vicini di casa in questo momento, per citare un caso isolato, hanno i rasta e portano pantaloni larghi di stoffa del tipo indiano, in Italia il loro aspetto li farebbe passare subito come “ragazzi dei centri sociali” e, forse, la definizione non è troppo lontana dalla realtà. Abbiamo trascorso un pomeriggio insieme a loro e possiamo testimoniare schiettamente che non sono di destra.

Stepko ha lavorato 5 anni in Vietnam in un centro che aiutava i bambini vittime di abusi a superare i propri traumi, Dana è psicoterapeuta in una specie di casa-famiglia qui in città, Oleg è un furgonista, Ilya lavorava come fattorino ma ora è disoccupato e tanti altri con i quali non abbiamo avuto modo di parlare rientrano in una galassia che è molto lontana da idee xenofobe o scioviniste. Eppure, se gli chiedi dell’Ucraina, senza esitare ti dicono che il Paese è sotto attacco e che va difeso. “Ma tu ti definiresti un nazionalista?” abbiamo provato a chiedere a questi ragazzi e a molti come loro anche a Kharkiv, Mariupol e Odessa prima della guerra, a Kiev qualche giorno fa.

Bene o male la risposta si può riassumere così: “nazionalista non direi, piuttosto un patriota”. Qual è la differenza? “L’Ucraina ha molti problemi (citano quasi sempre tutti per prima la corruzione) e non è il Paese migliore del mondo, ma se qualcuno ci attacca dobbiamo difendere la nostra terra”. Ci rendiamo conto che è un terreno scivoloso, ci sono tantissime questioni che non si possono tralasciare nel racconto dell’Ucraina dal 2014 a oggi. Tantissime responsabilità celate, tanti punti oscuri da chiarire e tanti errori.

C’è un problema sostanziale legato alla militarizzazione del Paese che ha portato molti gruppi di estrema destra a diventare una risorsa per le forze combattenti ucraine, uno su tutti l’ormai celebre Battaglione Azov, che ostenta nelle proprie insegne un simbolo della mitologia nordica poi ripreso dai nazisti. Molti di questi gruppi sono stati anche condannati da Amnesty International e dall’Osce per azioni criminali di una violenza inaudita, come il “rogo di Odessa” in cui persero la vita 48 persone.

Tuttavia, non è di questo che stiamo parlando. La questione è come si sia arrivati ad avere un Paese, molto indisciplinato in quasi tutti gli aspetti della gestione della cosa pubblica, unito a tal punto da voler resistere a tutti i costi a uno degli eserciti più potenti al mondo. Com’è possibile, ad esempio, che la norma che vieta di vendere alcol in vigore da tre giorni sia rispettata così pedissequamente da tutti i commercianti che ci guardano anche male quando insistiamo per comprare una birra. E non lo fanno per paura della multa, tutt’altro, ti guardano come a dire “ma lo capisci in che situazione siamo?”.

Allo stesso modo Stepko e i suoi amici, ora volontari per il supporto degli sfollati che arrivano da tutto lo stato, si sono organizzati per reperire cibo, coperte, vestiti, pannolini e munizioni. Proprio così, munizioni. “Ma tu avevi mai visto un proiettile in vita tua?” gli ho chiesto. “Solo per terra, nei boschi dove vanno i cacciatori” è stata la sua risposta. Ora, tramite internet e il passaparola, questi ragazzi cercano di supportare una causa che sentono come vitale. “Ma tu odi i russi?” gli chiedo alla fine.

“No, ma odio Putin. Sono anni che parla di noi (ucraini) come di qualcosa che andrebbe cancellato e questo non lo posso accettare e, del resto, non capisco neanche perché non è stato fermato prima”. “E non credi sarebbe meglio fermare la guerra invece di continuare a cercare armi
che causeranno altri morti?”. “Putin non si fermerà, lo sappiamo, io ho paura della guerra, molta paura, ma cosa dovrei fare, lasciare l’Ucraina e andarmene altrove? Mi trovo bene qui e ci voglio restare”.

Il discorso è complesso, ci sono molte responsabilità in questa guerra, responsabilità che affondano le proprie radici in anni di fallimenti diplomatici e, bisogna dirlo, di ingerenze occidentali. Ma l’Ucraina di oggi è anche quella di Stepko, un Paese composto di ragazzi normali che da un giorno all’altro si sono trovati in una tragedia storica e ora cercano di uscirne come possono.