A notte tarda nel piazzale del centro di cultura kurda “Ararat”, nel cuore di Testaccio a Roma, era rimasta solo una timida distesa di brace a dare testimonianza del grande fuoco che ha accompagnato i festeggiamenti romani del Newroz (letteralmente, nuovo giorno), la festa di capodanno. Per la comunità kurda, quella del 21 marzo è una data di grande importanza e valore simbolico, una ricorrenza che trascende l’aspetto commemorativo e che nel corso della sua lunga storia ha via via assunto una connotazione molto politica. La leggenda narra di una rivolta popolare capitanata da un fabbro di nome Kawa contro il tiranno Dehok, una creatura che sulle spalle portava due serpenti che nutriva ogni giorno con il cervello di due giovani. Dalla vittoria contro questa tirannia e dai giovani sopravvissuti la leggenda fa risalire la nascita del popolo kurdo, forgiato fin dal principio da un’indole resistente e determinata. In seguito a questa vittoria, Kawa accese immensi fuochi sulle vette delle montagne per comunicare la felice notizia a tutto quanto il paese.

Anche per questo, dal 612 a.C. e ancora oggi, il rituale del grande falò è visto dal popolo kurdo come un vero inno alla libertà e un omaggio alla propria esistenza. «Il Newroz viene festeggiato in diverse parti: Turchia, Siria, Iran, Iraq. Il problema è che in tutti questi paesi la nostra identità è negata, i nostri diritti calpestati: per questo il nostro Newroz ha una valenza così forte», ci spiega Garip, mentre sorseggia un bicchiere di chai. «Solitamente i festeggiamenti del Newroz hanno sempre coinciso con grandi adunate di piazza, con manifestazioni grandissime spesso sfociate in scontri in cui si registravano molti morti. Per noi kurdi è una giornata in cui gridare al mondo che c’è un popolo che lotta per la sua terra, la sua autodeterminazione, i suoi diritti». Come nel 2001, anche sabato scorso a Diyarbakir (Kurdistan turco) sono scese in piazza quasi 2 milioni di persone, nonostante la dura repressione che il governo turco adotta nei confronti delle rivendicazioni kurde e delle sue manifestazioni pubbliche. Anche per questo il Newroz ha sempre avuto un significato particolare, poiché permetteva alla comunità kurda di utilizzare i festeggiamenti del capodanno come momento di ritrovo collettivo in cui discutere i temi più delicati per la lotta della propria gente. «Sono secoli ormai che durante il Newroz vengono prese le decisioni più importanti», ci racconta ancora Garip. «Non è un caso che durate il Newroz del 2013 Öcalan ha dichiarato l’avvio del processo di pace, così come non è un caso che proprio per quello di quest’anno il popolo kurdo e tutta la comunità internazionale aspettavano una risposta dalle autorità turche sui “10 passi” enunciati nel documento promosso da Öcalan a fine febbraio per l’apertura di un processo di pace».

Ma l’altro volto della causa kurda, quello celebrato a gran voce in tutti i festeggiamenti di questo 2015, è senza dubbio il volto della Rojava, delle regioni autonome di Cizre, Kobane e Afrin, dove la popolazione kurda sta dando vita ad una nuova proposta e pratica politica che ruota intorno ai principi del confederalismo democratico promosso dal leader del PKK Abdullah Öcalan, dal 1999 detenuto nella prigione di Imrali. Un esperimento politico che, contestualmente, sta dando una prova di resistenza all’avanzata dello Stato Islamico, spauracchio di quell’Occidente che non sembra però coglierne la vera origine e la reale portata.

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Le vicende dello “Stato Islamico” e della sua aggressione alla regione kurda costituiscono ancora oggi un argomento tabù per il giornalismo italiano. Dopo aver schiacciato la “questione Isis” a paradigma della guerra islamica contro l’Occidente, tuttora la vulgata mediatica continua a rimuovere due importanti elementi decisivi per la comprensione del problema. Da un lato, si esclude totalmente il rapporto causa-effetto tra le politiche occidentali (soprattutto statunitensi) nella regione mediorientale, e la nascita di varie formazioni cosiddette jihadiste, tra le quali, ultima in ordine cronologico, proprio Isis. Dall’altro, si continua ad ignorare e banalizzare la presenza di una resistenza mussulmana, sciita e sunnita, in guerra da più di tre anni contro lo Stato Islamico: l’unica forma di resistenza, oltretutto, che sta nei fatti infliggendo alle milizie di Al Baghdadi le sconfitte maggiori. Da questi due “rimossi” della narrazione mainstream bisogna dunque partire per comprendere il problema islamico in Medioriente, soprattutto riguardo alla sua possibile soluzione, che di certo non si trova reiterando politiche d’aggressione in quelle regioni.

Da oltre trent’anni l’ingerenza occidentale (statunitense, ma anche israeliana e saudita) fomenta le formazioni islamiste in chiave anti-panarabista e/o direttamente anticomunista. Dai rapporti tra talebani e Stati Uniti nell’Afghanistan degli anni Ottanta, alla crescita di Hamas in funzione anti-Fplp in Palestina, dalla “dissoluzione guidata” della Somalia degli anni Novanta sino a giungere alle recenti vicende in Libia e in Siria (dove sono state finanziate per lunghi anni forme di opposizione islamica ai governi formalmente laici dei due Stati) – ormai esiste una vasta letteratura in merito ai rapporti filiali tra casa madre statunitense e “schegge impazzite” islamiste. A questo vanno aggiunte le due guerre d’aggressione in Afghanistan e Iraq degli anni Duemila, che hanno portato al fallimento di due Stati sovrani e alla conseguente “tribalizzazione” intorno a linee etnico-religiose di enormi territori utilizzati successivamente come terreni di sperimentazione delle formazioni armate jihadiste. I successi dello Stato Islamico in Libia, tramite proprie filiali locali apparentate ad un metodo terrorista più che ad un network politico vero e proprio, descrivono l’ultimo, in ordine di tempo, elemento di continuità tra politiche occidentali (in questo caso di Francia e Inghilterra) e degenerazione dello scenario locale.

A tutto questo c’è chi si oppone, chi da tre anni combatte una resistenza armata, dura, vincente: le formazioni curde del PKK e dell’YPG, nel Kurdistan turco e iracheno, e soprattutto nella regione autonoma del Rojava (il Kurdistan siriano), territorio nel frattempo trasformatosi in laboratorio politico-sociale delle nuove tendenze del partito di Öcalan e del suo corrispettivo siriano PYD. Da tre anni la resistenza kurda infligge pesanti sconfitte allo Stato Islamico. Prima in Siria, fronteggiando i ribelli siriani anti-Assad che da tempo controllano militarmente la zona appunto del Rojava, stabilendo a Raqqa la propria capitale; poi al confine turco-iracheno, dove in seguito alla ritirata dei peshmerga (i militari curdi iracheni, legati agli Usa), l’esercito popolare curdo del PKK-YPG ha liberato la cittadina di Kobane dal prolungato assedio dell’Isis. E’ qui che origina la “vicenda italiana”, perché è proprio a Kobane e dintorni che da novembre scorso è presente una staffetta permanente italiana (e non solo, sono centinaia gli internazionali presenti). Una staffetta che ha cercato di dare un senso aggiornato al concetto di solidarietà internazionale sostenendo, attraverso aiuti economici e sanitari, nonché attivando campagne di controinformazione sulla vicenda, la lotta di una parte del popolo kurdo (e mussulmano) contro il “mostro” prodotto dalle quelle politiche occidentali che per decenni hanno represso la popolazione kurda e il suo maggior partito, il PKK di Öcalan.

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«Come associazioni, collettivi, centri sociali e singoli abbiamo sentito la necessità di recarci a pochi km da Kobane, in territorio turco e a pochi metri dal confine, per rendere visibile la nostra solidarietà con il popolo kurdo che non si è mai arreso e continua a lottare per la propria autonomia», si legge sulla pagina Facebook di Rojava Calling, al momento unica via per avere informazioni sull’attività di questa piattaforma che non mira solo ad un semplice lavoro di testimonianza solidale. Anzi. La progettualità passa dal sostegno umanitario, la raccolta fondi e di materiali di prima necessità all’attività di monitoraggio informativo sul conflitto, sull’evoluzione delle pratiche di autogoverno del Rojava fino alla costituzione di una campagna nazionale che reclami la libertà del leader Öcalan e la cancellazione del PKK dalla lista dei terroristi internazionali. Il tutto in nome di un rinnovato e ritrovato spirito internazionalista, di una forte convinzione nell’esempio kurdo e dei dettami contenuti nella sua Carta Sociale.

Secondo Rojava Calling, questa carta rappresenta non solo un «modello alternativo di sviluppo sostenibile delle società mediorientali» ma anche una riflessione determinante per molti sodali internazionalisti provenienti dall’Europa. Immaginato secondo i quattro pilastri del «confederalismo democratico, della centralità del ruolo della donna, dell’autodifesa e della redistribuzione della ricchezza», il territorio del Rojava appare come un’arida lingua di terra, senza confini rintracciabili nei libri di storia. Una dimensione popolare che ciononostante ha fermato non solo l’avanzata militare dell’Isis, ma anche ciò che questo rappresenta, smascherando quel sistema globale di poteri che ieri ne ha garantito la nascita, lo sviluppo , il radicamento e la legittimità e che oggi si sta affrettando a dissociarsene con evidente imbarazzo.

Una resistenza che nel giro degli ultimi mesi ha riscosso un favore generale soprattutto per la partecipazione attiva delle donne del Rojava non solo alla guerriglia armata e alle azioni di partigianeria, ma anche per la decisiva presenza nei meccanismi istituzionali e rappresentativi di cui la regione kurda s’è dotata. Ci sono donne in ogni posizione chiave dell’amministrazione, senza contare che le organizzazioni autogestite di donne hanno elaborato una dichiarazione sui diritti di genere che è considerata la base delle nuova legge in via di approvazione. Una storia che sorprende, ma al tempo stesso una storia di dignità, come quella dello YPJ, l’esercito kurdo di autodifesa femminile, quello che ha fatto il giro del mondo per le foto delle guerrigliere in mimetica che imbracciano le loro armi. «Prima della guerra, quando Kobane era una città autogovernata e liberata della regione autonoma della Rojava, le donne dello YPJ erano impegnate quotidianamente in un’opera che teneva insieme l’educazione all’autodifesa e la lenta demolizione della mentalità patriarcale dentro la loro stessa società. Nascono come anticorpo interno perché consapevoli che non basta l’applicazione di un modello rivoluzionario di organizzazione della società per riequilibrare le diseguaglianze di genere. Quella che dopo la liberazione hanno insegnato al mondo è una lezione di protagonismo e di assunzione di responsabilità del destino collettivo che non ha paragoni», ha recentemente scritto Eleonora de Majo, attivista di Rojava Calling da poco rientrata in Italia con il resto della staffetta. L’esperienza si allarga e la solidarietà sembra essere tornata ad essere una vera “arma”, come scandiscono gli slogan delle lotte che si intrecciano ogni giorni nei mille angoli del pianeta.