Ieri la polizia francese è scesa in piazza contro le accuse di violenza. Una strumentalizzazione mediatica, dicono, eppure le immagini degli scontri a Parigi e nel resto della Francia circolate in rete nei giorni scorsi sono molto chiare. Cannes, giorno numero 8. Le telecamere di sorveglianza fanno concorrenza a un set hollywoodiano. Il festival è più che a metà, troppo presto per i bilanci, certo, anche se alcune impressioni sono comuni. Meno gente, intanto, strade e sale meno affollate anche se si rimane fuori, il mercato che dopo una settimana è già in smobilitazione e le valigie che al mattino cominciano a circolare sulla rue d’Antibes.

Colpa della crisi? O dell’allarme terrorismo – si chiedono gli addetti ai lavori.Non dovrebbe sorprendere però visto il sentimento di dolorosa frustrazione, pubblica e privata che attraversa i film del concorso, un’immagine che dell’«aria dei tempi» fa correre il soffio cupo di opportunismo e ipocrisia.

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È invece un film in rivolta Aquarius, forse anche per questo quasi un’epifania, finora uno dei più bei film del concorso, in cui il regista racconta una storia di resistenza solitaria e tenace contro l’iniquità dei soprusi di corruzione e neoliberismo nel suo paese, il Brasile. L’equipe del film si è schierata con la presidente Dilma Roussef, e nella protagonista attaccata su tutti i fronti dalle nuove ricchezze di multinazionali e corruzione, possiamo vedere qualcosa della sua vicenda politica fino alla destituzione – un golpe gridavano ieri in molti sul tappeto rosso del film.

Coincidenze, certo, perché Aquarius Kleber Mendonça Filho, al secondo film ma nome già affermato nei circuiti festivalieri internazionali grazie al premiatissimo esordio (molto bello) Neighboring Sounds, è stato girato nei mesi passati. La coincidenza, se così vogliamo chiamarla, è piuttosto nella natura di un cinema che sa guardare dentro al mondo, precedere la realtà nelle sue intuizioni, politico nelle sue scelte narrative, di messinscena, nelle invenzioni che mescolano passato e presente, suggestioni attuali e memorie.
Siamo a Recife, che è anche la città dove il regista sessantottino (nel senso classe 1968) è nato, Clara che ha la bellezza divina di Sonia Braga, la star brasiliana mondiale, è una giornalista musicale che vive sola in una bella casa di fronte al mare. È sempre stata lì, ci sono cresciuti i suoi figli, ci sono i suoi ricordi, i segni di una vita intera, i volti di chi ha amato, il marito, la zia ribelle, la sua malattia. Disseminati nelle stanze, tra i molti oggetti che come i dischi di vinile riempiono gli scaffali, le canzoni di Maria Bethânia che regala all’amato nipote per sedurre la ragazza carioca di cui si è innamorato.

Clara adora la sua casa e l’oceano dove nuota ogni mattina ma è rimasta sola. Tutti gli altri inquilini del palazzo sono andati via cedendo alle proposte dell’immobiliare che vuole trasformare il quartiere in un complesso residenziale di grattacieli e lusso. Un vecchio e il suo giovane e rampantissimo ingegnere sorridono e offrono soldi ma lei non cede. Resiste ai milioni e alle subdole minacce camuffate da un sorriso affabile, di chi ha fatto master di business in America.

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Il film è costruito su questa tensione, un conflitto aperto e costante tra il personaggio protagonista e un mondo che le sfugge, al quale diviene quasi estranea, persino la figlia vorrebbe che lei cedesse ai milioni, alla proposta di un altro appartamento più consono al suo stato di buona borghesia costretta comunque a sua volta a riposizionarsi con la crisi.

Ed è uno scontro che si misura sugli spazi dell’individuo, sociale e privato, che come lei cerca dei margini e degli alleati in un’economia che non ne lascia. Media, politica, affari, interessi si intrecciano e si coprono a vicenda.

E però la scrittura del film spiazza completamente la semplice sociologia con le sue invenzioni narrative, soprattutto grazie alla sua protagonista, di cui il regista filma con amore l’anima e il corpo in un ritratto di donna che si oppone agli stereotipi dell’età. Madre conflittuale, vedova, nonna, seduttiva e sfacciata, piena di desiderio: il piacere del mare e di un ragazzo, il gusto del vino e della sensualità. Sonia Braga è splendida complice in questa relazione che nel femminile cerca la resistenza. Tra gentrificazione e piccoli riti quotidiani, le paranoie borghesi (anche la classe della protagonista non è risparmiata pure se il regista mantiene il sguardo fermo qui) e l’arroganza dei poteri, il corpo magnifico di questa donna, permette di intrecciare infiniti motivi, storie, epoche. Fino a diventare quasi una cartografia del contemporaneo a cui con la sua sola presenza Clara insinua un disagio, una crepa, frattura.

Ribellione e piacere, e non è solo nostalgia virata vintage di altre epoche. Come non si tratta di una semplice ostinazione, la testardaggine di una «vecchia folle» che peraltro di appartamenti ne possiede altri cinque, e comunque non andrebbe in miseria visti i milioni che le offrono.
È qualcosa che riguarda la qualità della vita, e il suo godimento, oltre al rifiuto dell’arroganza e della rassegnazione; è questo che prova a trasmettere fuori dagli schematismi la bella Clara ai suoi giovani amici. Uno scambio, come i file che gli passa il nipote su mp3, il gusto della spiaggia con le sue piccole storie, degli incontri, oltre la linea i poveri, quasi sempre black, che la borghesia brasiliana ha messo da parte.Viene in mente l’energia del cinema novo, quella sua forza dissacrante che esprime nei personaggi.
Clara e il Brasile roso, divorato nei suoi più piccoli interstizi. Un cancro tremendo come quello che tanti prima aveva aggredito la donna. Lei lo ha sconfitto,il suo rifiuto a quello del mondo che la circonda sarà furioso.