L’immagine più forte è quando una ragazza ferma sotto la pioggia col suo impermeabile di plastica bianca continua a stringere il cartello di protesta tra le mani fissando negli occhi senza muoversi il giovane poliziotto che la sta allontando. Più che una sfida quello sguardo silenzioso pone una domanda: perché? il cui destinatario non è tanto l’agente – anche lui evidentemente vista la divisa – ma il governo giapponese che ha schierato la forza d’assalto contro i suoi cittadini per difendere invece interessi economici, accordi internazionali, reciproci favori e scambi la cui origine data indietro nel tempo. È la fine, la protesta degli abitanti è stata repressa con estrema violenza ma questo non significa che si fermerà. Così come non si fermeranno le basi e la presenza americana sull’isola di Okinawa, nonostante promesse e certezze perdute tra i troppi silenzi del governo giapponese. The Targeted Islands ci portà lì, sull’isola teatro nella seconda guerra mondiale di uno dei più feroci scontri tra esercito del Sol levante e Usa, e sulle altre più piccole vicine dove dalla fine del conflitto la presenza americana continua a imporsi: una occupazione fatta di basi, armi, soldati che devastano l’ambiente e avvelenano la vita di chi vive lì.

 

 

Non è la prima  volta che Chie Mikami, la regista, racconta questa terra, che anzi è al centro del suo lavoro, tutti i suoi film tornano sempre a quella ferita dolorosa e profonda che di fatto il resto della società giapponese preferisce ignorare se non mettere sotto accusa – gli attivisti che si oppongono alla presenza americana vengono spesso definiti dei «terroristi» appartenenti alla «fazione cinese».
«Le persone che lottano per chiudere finalmente le basi americane sono cittadini come tanti altri, che cercano di proteggere la propria vita e quella delle altre persone. Per questo nel film ho voluto mostrarli nella realtà di ogni giorno lasciando spazio alle voci e ai pensieri di ciascuno» spiega Chie Mikami, giornalista per la televisione giapponese fino al 1995, quando è stata inviata a Okinawa e ha iniziato a girare documentari per raccontarnhe la storia e il presente.

 

 

The Targeted Islands: A Shield Against Storms si apre con una cerimonia funebre: «Non siamo stati capaci di proteggere i nostro abitanti» dice il sindaco con la voce rotta. Una ragazza di venti anni è stata uccisa da un marine americano ma violenze specie sulle donne, stupri sono continui e ripetuti e quasi sempre rimangono senza giustizia. I militari che vivono sull’isola con le loro famiglie sono arroganti, di frequente i velivoli colpiscono le abitazioni, la gente muore, si ammala, è messa in uno stato di servitù, i nervi a pezzi per il rumore, per la pressione continua. Sono impoveriti, esasperati, nonostante le continue assicurazioni del governo le basi continuano a proliferare e quel «fortino» chiave per il controllo americano nel Pacifico d conta almeno cinquantamila americani residenti di cui 30mila nelle basi militari, e sembra vi transitino (anche se ovviamente la cosa è sempre stata smentita) anche le sostanze più tossiche, comprese le testate nucleari.

 

 

Un gruppo di madri tiene sotto controllo il sito dove è prevista la costruzione di un nuovo insediamento militare americano: «Perché vogliono distruggere anche la meravigliosa baia di Henoko?» grida una donna. «Fuori i marines» affermano i cartelli branditi in aria. Il progetto è quello di un nuovo aeroporto la cui costruzione fu bloccata nel 2015 a causa dell’opposizione delle autorità locali, ma il governo centrale di Tokyo è riuscito ad ovviare all’opposizione in tribunale. Le storie si accavallano, la regista è sempre accanto alla protesta, ne illumina le ragioni politiche senza retorica né vittimismo, con semplicità e in modo diretto ne trasmette il dolore di una sconfitta che oltre quei confini racconta il mondo.