Alla Mostra di Venezia ha presentato due film, A Tramway in Jerusalem e Letter to a Friend in Gaza molto diversi l’uno dall’altro, entrambi legati a Israele, protagonista prismatico della sua filmografia. Il primo è quasi il racconto di un’utopia, il secondo più radicale, presenta quattro attori, due palestinesi e due israeliani che leggono testi sulle origini della crisi tra israeliani e palestinesi durissimi contro il premier Netanyahu. Amos Gitai non smette di immaginare cambiamenti, o almeno di provocarli nel suo lavoro, interrogando politicamente con le immagini la realtà. Negli anni Ottanta e Novanta ha incarnato la figura dell’apolide, lontano per scelta dalla sua terra, a Parigi e a New York, apolide è – ed è sempre stato – il suo cinema che continua a oscillare tra Europa e Israele, tra passato e presente, nella diaspora cancellata dal mito del sionismo, in quel progetto democratico nel quale credevano – e che gli hanno trasmesso – i suoi genitori, il padre Munio, architetto del Bauhaus sfuggito al nazismo, la madre Efratia, nata ai piedi del Monte Carmel, che ha studiato in Austria e in Germania e ha lasciato tutto quando Hitler ha iniziato a imporsi.

In Israele Gitai è tornato con il governo Rabin, è andato via di nuovo quando lo hanno ucciso, su quell’assassinio ha indagato più volte nella sua oper ricostruendo il fuoricampo dell’attualità, la trama di odio e di violenza alimentata da chi come Netanyahu è ancora lì. E ora? «Il cinema è un mezzo per riflettere e per condividere il proprio pensiero. Ci sono alcuni aspetti nel mio Paese che amo nonostante tutto per questo credo che sarebbe irresponsabile non dare voce alle opinioni diverse, e le immagini sono il mio strumento».

Ci incontriamo a Parigi, nel suo studio luminoso vicino al Canal Saint Martin, i dettagli rivelano l’architetto, una parte della sua formazione – se pensiamo al lavoro sullo spazio (anche emozionale) – molto presente nei film.«La situazione in Israele non è normale, abbiamo un ministro della cultura che vuole imporre le proprie regole e controllare l’industria del cinema. Per quanto è possibile non dobbiamo avere alcun rapporto con loro e lavorare in modo indipendente almeno fino a che questo governo rimane in carica. Tutto quello che sanno esprimere è odio, divisione, razzismo – non voglio portare queste cose nel mio cinema. Dobbiamo essere quasi clandestini, non confrontarci in alcun modo con la pressione degli apparati governativi. Che è forte, specie sui registi esordienti e rende i lavori di molti tra loro conformisti, è un vero peccato».

Cosa ne pensi della proposta di legge che vuole il diretto controllo su ogni progetto della commissione statale?
Purtroppo sono convinto che passerà e che la ministra della cultura (Miri Regev, ndr) riuscirà nel suo intento che è quello di distruggere il cinema israeliano. La nostra cinematografia in questi anni è cresciuta conquistando attenzione e rispetto nel mondo. La ministra è mossa solo dall’ambizione e non riesce a capire che la cultura non coincide con la propaganda ma al contrario deve dare voce alle domande, sollevare dubbi. Lei invece identifica il cinema con le campagne promozionali, se fossi naif direi che si tratta di un profondo malinteso ma siccome non lo sono dico che siamo davanti a un disegno molto preciso per azzerare l’indipendenza.

Hai girato due film che riflettono in modo quasi opposto il presente: da una parte «A Tramway in Jerusalem» costruisce un microcosmo di convivenza nel quale anche le ostilità trovano un modo per essere smussate; « A Letter to e Friend in Gaza» è invece aspro, nella parola mette in scena l’odio, la xenofobia, il razzismo che sono in Israele ma che si stanno espandendo in tutto il mondo, cavalcati abilmente dalla politiche al potere in molti paesi (pensiamo a Trump o all’Italia).

Ho scelto di girare in un tram che attraversa Gerusalemme perché volevo restituire la città. Abbiamo utilizzato due automobili, una per filmare, l’altra per l’attrezzatura, non dovevamo mai bloccare la linea così ho preparato le riprese seguendo uno schema orario fornito dalla direzione dei trasporti. Israele è un Paese diviso, il tram è il solo spazio in cui le diverse parti vengono a contatto, gli ortodossi più integralisti israeliani sono vicini ai rapper radicali palestinesi, si possono sentire storie straordinarie ma soprattutto in quel tram si riesce a immaginare come potrebbe essere Gerusalemme al di là della situazione di oggi. Affiora la sua natura di città mosaico, che è ancora presente, che si porta dietro un passato antico, così lontano dal quotidiano del controllo israeliano. La più bella tra le chiese è quella armena, poi c’è la parte cristiana, ci sono moschee bellissime, ci sono i resti del tempio di Erode e di Salomone… È chiaro che il conflitto non si può ignorare, anzi si è inasprito, sul tram ce ne sono degli accenni, la sicurezza, il sospetto verso l’arabo … Però ho preferito immaginare come potrebbe essere la relazione tra le diverse componenti del Paese anche se oggi la maggioranza degli israeliani vota per Netanyahu. Ma io credo nella minoranza, la maggioranza spesso esprime un pensiero molto stupido, guarda la scelta della Brexit o i risultati elettorali in Italia. Voglio credere invece nelle idee che resistono, nel cinema che forse non fa ancora abbastanza. Si deve entrare in ogni spazio della cultura, parlare con le persone, proporre loro un modo di stare insieme differente. Anche fare un film su un tram può provocare piano piano un cambiamento.

E «Letter to a Friend in Gaza»?
Va nella stessa direzione, la differenza è la forma, avevo in mente di realizzare un film-saggio in risposta alle violenze commesse dall’esercito israeliano che spara ormai abitualmente su persone inermi come è accaduto la scorsa estate. Il riferimento è stato il testo di Albert Camus, la sua lettera a un amico tedesco, scritta nel 1943, in pieno conflitto mondiale, a dimostrare che era ancora possibile un rapporto tra i due popoli nonostante, appunto, la guerra. Per questo ho scelto testi di più autori, Mahmoud Darwish, Izhar Smilansky, Emile Habibi e Amira Hass. Sono convinto che non ci deve arrendere a questa politica, dobbiamo trovare un modo per opporci e anche un piccolo gesto è importate. Il cinema, l’arte devono ripartire da qui, confrontarsi con quanto accade, comunicare ma senza demagogia come si vede in tanti film che cercano solo il consenso a costo di servirsi della manipolazione. Penso che la strada da seguire ce l’ha indicata già tanto tempo fa Roberto Rossellini con film come Germania anno zero, ecco quella è la direzione, il suo è stato un atto molto coraggioso che guarda dentro la paure, dà voce alle contraddizioni. Ci vuole un nuovo modo di pensare il contesto nel cinema, sia documentario che di finzione, in cui i filmmakers raccontino storie interrogando il modo di farlo, «la confezione», e con essa il mondo senza limitarsi a aderire a un programma culturale o a dire quello che vogliamo sentire.

Sei architetto, lo era tuo padre, l’architettura è un riferimento costante nei tuoi film.
In ogni progetto mi interessa usare lo spazio che mi permette di restituire anche il sentimento delle mie storie. Tutti i miei film si svolgono in un spazio unico, preciso, che mi obbliga a trovare una soluzione, da Esther a questo A Tramway in Jerusalem.

In «A Tramway in Jerusalem» ritrovi molti dei tuoi attori «storici», nel precedente «West of the Jordan River» (2017) ritornavi laddove eri stato in tuo film di molti anni fa, «Field Diary» (1982). È come se il tuo cinema cerchi di formare una diversa memoria, un archivio in trasformazione e in dialogo con la realtà.
Ho dato alla Stanford University tutti gli archivi del progetto su Rabin perché sono convinto che per le giovani generazioni sia importante accedere al processo, articoli, documenti, più che vedere il film finito. Esporre il processo è come scolpire, è come rendere evidente un fare. Quando mio padre è morto per molto tempo ho pensato di disfarmi del suo archivio che invece alla fine, grazie a una richiesta di Lionel Richards ho tenuto. Il prossimo anno ricorre il centenario del Bauhaus, è interessante vedere come sono stati rifiutati in Israele e bollati come antisemiti dopo essere stati perseguitati dal nazismo. Erano architetti che non volevano creare archi, una cosa che trovo molto emblematica, il loro «minimalismo»era la forza di opposizione ai nazisti. Ci sono fantasmi che tornano nelle mie immagini, sono le mie ossessioni, è come quando vedo un Goya o un Velasquez o ascolto le Variazioni di Bach… Ogni volta però c’è qualcosa di diverso, una ricerca formale che risponde a una strategia cinematografica Dell’architettura cerco di conservare la semplicità che era la cifra del Bauhaus, non mi piacciono gli agglomerati, trovo che la semplicità sia fondamentale anche per esprimere le emozioni, non amo l’isteria, e questo vale anche nella vita personale. Ho girato Field Diary trentasei anni fa, nei Territori occupati durante l’invasione del Libano; è un film molto duro pure se in qualche modo tenero, ed è ancora attuale. Come si dice raccontavo la realtà che non è cambiata. Ho fatto un film su un conflitto e su una contraddizione, ero mosso dal mio disappunto di cittadino che si chiedeva però in che modo porsi di fronte alla guerra. Una domanda che vale ancora oggi.