«Mi si conosce per essere una pazza». Lo dice scherzando, fra una considerazione e l’altra. Ma Ada Yonath, premio Nobel per la chimica nel 2009 per aver spiegato la struttura e la funzione del ribosoma, israeliana, sa bene che vuol dire combattere contro vento e marea per riuscire a dimostrare che la sua ricerca aveva senso. All’annuale incontro dei Nobel che si tiene sull’isola di Lindau (Lindau Nobel Laureate Meeting), nel lago di Costanza in Germania a fine giugno, quest’anno Yonath era una delle tre donne (su 65 premi Nobel invitati). Quando le assegnarono il Nobel, fu la prima donna israeliana, la prima mediorientale e solo la quarta donna a vincere il Nobel per la Chimica – la prima in assoluto fu Marie Sklodowoska Curie (1911), per la scoperta di elementi radioattivi; la seconda sua figlia Irène Joliot-Curie (1935), sempre per la sintesi di elementi radioattivi; la terza Dorothy Crowfoot Hodgkin (1964), pioniera delle tecniche di cristallografia con raggi X.

Anche Yonath ha usato le tecniche della cristallografia per svelare il mistero del ribosoma, l’organello deputato alla costruzione dell’oggetto più importante per la vita quotidiana delle cellule: le proteine. Assieme a Venkatraman Ramakrishnan e Thomas A. Steitz, con cui ha condiviso il Premio, Yonath è riuscita a determinare la struttura molecolare di questa «macchina cellulare» presente in tutte le cellule e formata – grazie a lei oggi lo sappiamo – da due lobi, uno più grande e uno più piccolo, costituiti da acido ribonucleico (Rna) e da diverse proteine. Al suo interno, proprio nel canale che separa i due lobi, l’Rna messaggero (mRna), che arriva dal nucleo cellulare come copia del Dna, guida il modo in cui la lunga catena di amminoacidi va formando, in modo rapido ed efficiente, le diverse proteine.

Nata in un’umile famiglia sionista di immigrati a Gerusalemme nel 1939, a 11 anni, orfana, dovette darsi da fare per aiutare la madre e la sorella piccola. Le ci sono voluti venti anni per riuscire a «scattare la fotografia a raggi X» dei ribosomi. Nessuno ci era riuscito prima: i ribosomi sono grandi e si muovono, e tutto questo fa a pugni con la tecnica cristallografica. Ma lei, grazie a un provvidenziale incidente in bicicletta che la immobilizzò, ebbe l’occasione di riflettere e studiare, e farsi ispirare dal letargo degli orsi polari i cui ribosomi vengono immobilizzati e impacchettati nei mesi di sonno invernale. Oggi continua a occuparsi di ribosomi: ne sta studiando una regione che si è conservata evolutivamente dai batteri fino a noi, il «proto-ribosoma», una specie di antecessore biologico del ribosoma. L’altro tema che le sta a cuore è il meccanismo di resistenza agli antibiotici, che sembra molto più complesso del previsto dopo la scoperta che anche nel microbioma (i batteri presenti nell’intestino) della popolazione indigena amazzonica degli Yanomami, mai a contatto né con farmaci, né con animali trattati con antibiotici, sono presenti batteri resistenti agli antibiotici.

SONY DSC

Forse sono proprio le circostanze avverse che ha dovuto affrontare durante tutta la sua vita a renderla così accessibile. A Lindau ha concesso una lunga intervista al manifesto e a una giornalista greca, il che le dà l’opportunità di lodare le comuni radici mediterranee. I giornalisti non è che li ami troppo: «Non si può dire che tutti i giornalisti siano impossibili, ma non si può nemmeno dire che quando li incontro ci siano sempre baci e abbracci».

Recentemente è stata nominata, assieme ad altri 26 scienziati, membro del Comitato consultivo scientifico del Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. Qual è il vostro compito?

Ci siamo visti a maggio a Kuala Lumpur, in Malesia, un paese che considera gli israeliani dei nemici, anche se grazie al mio visto speciale dell’Onu l’ho potuto visitare. Questa era la terza occasione che ci vedevamo, e devo dire che l’incontro si è rivelato davvero interessante, non è stato solo un bla-bla. La presidente di questo comitato è la direttrice dell’Unesco Irina Bokova – di cui si dice potrebbe essere la prossima Segretaria Generale dell’Onu.

Il compito che ci era stato assegnato era quello di portare delle idee da discutere. All’inizio temevo avremmo parlato per slogan: contro il tabacco, il cambiamento climatico, cose così. Tutte cose giuste, ma l’Onu ha già comitati che se ne occupano. Noi siamo un comitato scientifico, dobbiamo fornire raccomandazioni scientifiche! Alla fine abbiamo parlato di cose molto concrete. Primo, abbiamo ridotto 26 idee a sei. Persino la mia è piaciuta: costruire centri di eccellenza direttamente gestiti dall’Onu, non dai governi locali, in zone meno privilegiate. La scienza deve essere del massimo livello, ma non importa in quale ramo. L’idea è di attrarre i ricercatori espatriati permettendo loro di portare i loro gruppi di ricerca e di espanderli. E aiutarli a reclutare scienziati dalla regione in cui si costruisce il centro: intorno dovrebbero crescere scuole e università per preparare le prossime generazioni di scienziati.

Insomma, la ricerca come strumento per la crescita delle regioni povere.

Io pensavo che avrebbero riso di me. Invece un altro membro, l’italiana Fabiola Gianotti, futura direttrice del Cern di Ginevra, fin da subito si è seduta accanto a me e mi ha appoggiato. La sua idea è che tutti i paesi dovrebbero dedicare una percentuale fissa del loro budget alla ricerca di base: per esempio lo 0,2%. Un’idea fantastica. Alla fine abbiamo combinato le nostre idee: la ricerca nei centri Onu sarà di base. Stiamo lavorando per limare le sei idee e presentarle a dicembre in un incontro che faremo a San Pietroburgo.

Parliamo un po’ di lei. La sua vita è stata complicata fuori e dentro la scienza.

Guardi, neanche tanto. Solo quando ci penso oggi. Non è che avessi tanto tempo per le difficoltà, avevo tempo solo di portare avanti un progetto alla volta, lentamente e contro tutti. I cristallografi sono abituati ad andare da qui a lì in un unico modo. E io non riuscivo a fargli capire che noi ci volevamo andare in un altro modo.

Nelle sue conferenze, anche qui a Lindau, lei spinge i giovani ricercatori a combattere per quello che a loro piace. Ma non molti hanno il fegato di andare contro tutti per imporre scientificamente idee poco ortodosse.

Ma che problema c’è? Puoi essere uno scienziato fantastico con un cammino diverso dal mio!

Forse per una donna è più difficile.

Io non l’ho vissuto sulla mia pelle, ma non posso parlare per tutte le donne. Mi hanno trattato malissimo, ma non perché ero donna. O forse anche per quello. Ma soprattutto perché il mio progetto era complicato. Detto questo, non sono d’accordo che una donna debba avere più idee per andare avanti. Ne abbiamo, certo, più di voi uomini. Ma non è imprescindibile.

Parlando di scienziate: si è sentita offesa dalle polemiche dichiarazioni del suo collega Nobel Tim Hunt, che qualche settimana fa ha dichiarato che il problema con le donne nei laboratori è che o ti innamori di loro, o si innamorano di te e se le critichi si mettono a piangere?

Tim è un uomo simpatico, ha perso il cervello per 2 minuti e non l’ha più trovato. Non credo fosse serio. Certo, è una cosa molto stupida da dire. Sono abbastanza sicura che non ci crede neanche lui, anche se lo ha ripetuto mille volte. Ma credo che a quel punto fosse in uno stato di confusione mentale. Forse aveva un problema medico, o forse aveva solo bevuto troppo. È una persona adorabile, grande e grosso. Quando ho saputo di quello che aveva detto ho pensato: “Oh Tim, ma che dici?” Ma per quanto ne so, non credo che essere una scienziata nel suo laboratorio sia difficile.

La questione femminile nella scienza rimane…

La società non incoraggia certo a diventare scienziate. Perché è troppo «difficile», è «da maschi»… Guarda, guarda quel balcone dove quel bambino piange sempre. È che sua madre fa la scienziata. Oppure: la vedi? è così brutta che può fare solo la professoressa. Oggi non si usa più dire alle figlie: non fare la scienziata, ma la società ha modi più sottili per scoraggiarti. In linea di massima, la scienza non è più dura della politica, del ballo o dello sport. Ma la scienza si può fare anche senza competizione… a livello di mole di lavoro, non so. La scienza è molto esigente, con donne e uomini, e travolgente. Ma non più della politica!

Lei non ama fare dichiarazioni politiche perché teme siano manipolate. Però come scienziata israeliana non ci si può esimere dal chiederle che si può fare per i vostri vicini più prossimi, i palestinesi.

Al momento stiamo costruendo una struttura scientifica regionale. Si tratta di un acceleratore di sincrotrone per la cristallografia, Sesame, con sede in Giordania. Dentro ci sono Bahrain, Cipro, Egitto, Giordania, Iran, Israele, Pakistan, i palestinesi e la Turchia. L’Italia sta ancora decidendo se entrarci o meno. A volte i conflitti si risolvono anche facendo scienza assieme.