L’ordine firmato dal ministro della Difesa israeliano Benny Gantz che definisce “terroriste” sei organizzazioni palestinesi è un atto grave che suscita legittima indignazione in chi conosce e stima l’azione di queste persone per la difesa dei diritti umani. Questo atto costituisce l’apice di un crescendo di azioni di delegittimazione e intimidazione ed ha l’effetto di limitare o sospendere la loro operatività nei rispettivi campi di azione sociale.

Come sempre ne faranno le spese le fasce della popolazione palestinese più vulnerabili, con un danno immediato per l’operatività delle azioni rivolte alla tutela dei contadini privati delle terre, alla quella dei minori in area di crisi, delle persone private della libertà e delle politiche di inclusione e di genere a cui queste organizzazioni si rivolgono.

Il rischio concreto di queste ore è quello della chiusura degli uffici e degli arresti di dirigenti e militanti delle associazioni. Sarà poi impossibile relazionarsi con i partner esteri, compresi quelli italiani, e ricevere fondi internazionali per svolgere la propria opera sul campo.

Si crea poi un precedente inaccettabile: con questo atto gli attivisti di sinistra o chiunque sia affiliato a una di queste organizzazioni potrà essere assimilato a un terrorista, come se qualsiasi forma di lotta e di resistenza all’occupazione, anche quelle non violente e che si basano sulle raccolte di dati e di testimonianze, siano “terrorismo” per Israele.

Con questa decisione, che si colloca all’interno di un processo che ha esteso, nella compagine governativa, politica e sociale israeliana, l’applicazione della legge antiterrorismo vigente in Israele alle organizzazioni della società civile palestinese, il governo israeliano conferma ancora una volta lo stato di discriminazione nei confronti delle associazioni con ricadute pesanti sulla popolazione.

Già le limitazioni date dal sistema di occupazione e apartheid rendevano la vita dei difensori dei diritti umani in Palestina difficile, ma tale posizione mette a rischio un intero sistema che coinvolge in primis le organizzazioni palestinesi ma anche le numerose associazioni che con loro condividono prese di posizione, lavoro sul campo e impegno per la tutela dei diritti umani.

Le organizzazioni designate sono i nostri partner, sono gli stessi che accolgono le nostre delegazioni durante i viaggi di conoscenza e i campi di volontariato, raccontandoci il proprio impegno e la lotta per i diritti umani a fronte dell’occupazione. Nel report di NGO Monitor, pubblicato a giustificazione delle accuse, ci sono i nomi e le foto di amiche, amici e colleghi di lavoro, compagne e compagni di lotta e militanza, di persone che hanno dedicato tutta la loro vita alla ricerca della giustizia e alla difesa delle fasce sociali più vulnerabili.

ARCI e ARCS, a nome del tessuto associativo legato storicamente alla causa del popolo palestinese, continueranno a dare voce alle organizzazioni della società civile con cui collaborano da anni in Palestina, rafforzando il proprio impegno per denunciare le violazioni dei diritti umani da parte delle autorità occupanti.

Sosterremo le colleghe e i colleghi delle Ong italiane operanti in Palestina che stanno attivando le interlocuzioni con l’Agenzia per la Cooperazione allo Sviluppo in loco e le sedi diplomatiche italiane in Israele per rispondere a questo attacco. Le reti delle ong italiane, di cui ARCS fa parte, da venerdì scorso sono in contatto con parlamentari del nostro Paese per predisporre un’interrogazione urgente al governo affinché l’Italia assuma in fretta una posizione e chieda la sospensione di questi provvedimenti.

Non ci fermeremo finché l’intera comunità internazionale riconoscerà il sopruso, la limitazione della libertà di associazione e le violazioni dei diritti a cui il popolo palestinese è sottoposto.

*presidente di Arcs