Martedi scorso la collera del settore dello spettacolo per il modo con il quale il governo francese gestisce l’attuale crisi sanitaria si è riversata nelle piazze. Una grande manifestazione ha riunito a Parigi diverse migliaia di persone mosse dal sentimento che le misure imposte non sono dettate dalla semplice sicurezza sanitaria ma anche dal disprezzo che questa maggioranza ha nei confronti di chi lavora in questo settore.
Oltre alla manifestazione di piazza, c’è chi ha inventato altri modi per far uscire il mondo dello spettacolo allo scoperto invadendo quei luoghi che il governo considera prioritari. Molti artisti dello «spectacle vivant» sono andati nei centri commerciali a esibirsi. Per il momento, le chiese non sono state prese d’assalto – sebbene qualcuno abbia suggerito di utilizzarle per proiettare dei film. Come è accaduto a Marsiglia, dove all’interno della chiesa Œuvre Jean-Joseph-Allemand – e col sostegno del prelato – due sale della città, la Baleine e Gyptis, hanno organizzato un proiezione. Film prescelto, Péril sur la ville di Philippe Pujol, giornalista marsigliese. In poche ore, hanno raccontato gli organizzatori, sono arrivate 50 adesioni – sugli 80 posti disponibili.

DA PIÙ PARTI è venuta un’idea che trova la sua origine in un paradosso o in uno scherzo ma che comincia a farsi strada e potrebbe essere messa in pratica: fare del cinema e del teatro una religione. In fondo, cos’è una messa, se non una performance (più o meno grande)? Queste riflessioni fanno parte della necessità di prendere atto di vivere in una fase in cui il mondo vira all’assurdo e che dunque l’assurdo è la sola descrizione sensata del mondo. Tendenza che il filosofo e sociologo Frédéric Lordon chiama la «gorafisation du monde» e che in Italia suonerebbe come il «lercificarsi del mondo ».
Mentre si preparano altre azioni, tra cui la più ordinaria il ricorso al tribunale di Stato, mercoledì scorso, nella città di La Roche sur Yon, è andata in scena invece una forma di protesta che si era già vista a Parigi durante il primo lockdown – ad opera della RFI, Société des Réalisateurs des Films, e che consiste in una proiezione selvaggia di uno spettacolo cinematografico utilizzando il muro di un palazzo come schermo e la città come arena.

LA ROCHE sur Yon è una piccola provincia dell’ovest, ma che ha una lunga tradizione di cinefilia militante, una sala d’rt & essai molto attiva e un festival che si è creato uno spazio importante nel panorama nazionale. Sulla facciata del cinema La Concorde, si sono succeduti quattro film corti: Je vous salue Sarajevo di Jean-Luc Godard (1993), un film nato da una fotografia di Ron Haviv scattata a Bijeljina, il 31 marzo del 1992, nei primi giorni della guerra in Bosnia ; Pourquoi di Nadav Lapid (2014), sorta di lettera inviata al film Teorema di Pier Paolo Pasolini, e attraverso questo alla storia del cinema in genere ; La France contre les robots de Jean-Marie Straub (2020) nel quale il cineasta marxista per eccellenza si confronta ancora una volta con Georges Bernanos. Infine Bébé colère di Caroline Poggi e Jonathan Vinel (2020), in cui i due cineasti cercano con una metafora di cogliere che cosa è nato in questo 2020…

Il programma è chiaro. L’urgenza è quella di interrogarsi sullo statuto dell’imagine e del cinema nel nostro mondo. Straub e Godard non da ieri hanno tenuto a mostrare che quello ora appare evidente a molti, ovvero come non si debba dar per scontato che quello che chiamiamo cinema esista per sempre. Per due ragioni. Perché crediamo di sapere cos’è, e quindi smettiamo di cercare cosa sia (Godard). O perché crediamo che sia una cosa, mentre in realtà è un azione, un gesto, un movimento di resistenza (Straub). Mercoledì sera è apparso così: come un’azione volta a cercare di interrogarsi su quello che il cinema può fare, per sé, per noi. C’è da augurarsi che queste occasioni si moltiplichino, una cento, mille volte.