Un punto di partenza può essere il vocabolario della storia, che per indicare l’azione delle partigiane ha coniato due termini, contributo e partecipazione. Sono concetti deboli rispetto alla ricchezza dell’esperienza, ma indicatori forti degli orientamenti storiografici. Contribuire o partecipare non equivalgono a fare e a far parte, anzi marcano il divario fra appartenenza e convergenza momentanea, fra l’azione creativa e il suo contorno o supporto, che restano vaghi. Tanto vaghi che le medesime parole sono spesso usate estensivamente per abbracciare l’insieme delle iniziative femminili ritenute utili alla resistenza.

Forse è così, le donne contribuiscono e partecipano, non fondano. Ma dipende in primo luogo dai confini e dai contenuti che si danno al termine resistenza.

Nel campo d’azione che sia le cosiddette donne comuni sia le partigiane e le militanti sperimentano negli anni della guerra, ci sono molti comportamenti e obiettivi tipici della resistenza civile, vale a dire della pratica di lotta di singoli e gruppi sviluppata non con mezzi armati ma attraverso strumenti come il coraggio morale, l’inventiva, la duttilità, la capacità di manipolare i rapporti, insieme rafforzati e mediati dalla carica simbolica connessa alla figura femminile.

È resistenza civile quando si tenta di impedire la distruzione di cose e beni ritenuti essenziali per il dopo, o ci si sforza di contenere la violenza intercedendo presso i tedeschi, ammonendo i resistenti perché «non bisogna ridursi come loro»; quando si dà assistenza in varie forme a partigiani, militanti in clandestinità, popolazioni, o si agisce per isolare moralmente il nemico; quando ci si fa carico del destino di estranei e sconosciuti, sfamando, proteggendo, nascondendo qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra.

La mobilitazione dell’8 settembre ne è un momento forte, esemplarmente pericoloso e con caratteristiche di massa, e così la lunga ospitalità offerta ai prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizio. Il fenomeno riguarda tutta l’Italia occupata, e suggerisce non tanto una pietà indifferenziata, quanto la disponibilità femminile nei confronti di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile e dipendente che si rivolge in quanto tale alla donna come a una figura forte e protettrice, vale a dire a una madre. Per questo parleremmo qui di maternage di massa come forma specificamente femminile di resistenza civile.

Non necessariamente le iniziative sono non violente: basta pensare, oltre che alle operaie torinesi già ricordate, ai gruppi di donne che assaltano magazzini di viveri o depositi di combustibile – l’altra guerra, la definisce Miriam Mafai – e non da ultimo alle violenze collettive contro esponenti e favoreggiatori di Salò: ma in questi casi è spesso difficile distinguere tra i fatti e le costruzioni dell’inquieto immaginario maschile.

Si tratta dell’insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente – vite, rapporti, cose – che si contrappone sul piano sia materiale sia spirituale alla terra bruciata perseguita dagli occupanti; il che naturalmente non cancella l’esistenza delle indifferenti, né di delatrici, spie, piccole affariste, o delle organizzatrici in grande della borsa nera, che rappresentano anzi una nuova figura sociale tipica della guerra.

Ma nelle rappresentazioni ufficiali e nell’immaginario d’epoca c’è poco posto per l’opera delle donne, che, fatta eccezione per le combattenti, nella sua grandissima parte è costituita da azioni non armate, parzialmente o totalmente autonome da partiti e organizzazioni, non continuative nel tempo, non collegate fra loro.

Agli occhi dei più, resistente è chi ha combattuto in montagna, si è scontrato con gli ultimi fascisti e tedeschi nei giorni della liberazione, ha sfilato nelle città incarnando anche visivamente l’irrompere del nuovo. In seconda istanza viene il politico riconosciuto, militante o dirigente che sia. Figure inermi e debolmente organizzate come i deportati e gli internati militari restano sullo sfondo. Così le donne. Nello stesso schieramento antifascista si fatica a prendere coscienza di questo dualismo, tanto più a superarlo.

Brano tratto dal volume «In guerra senza armi» pubblicato da Laterza