«Nel momento in cui un popolo intero comincia a credere alle riduzioni di scalogno e non più al soffritto per me è un problema serio, anche politico: è l’alienazione di un sapere». A parlare è Daniele De Michele, in arte donpasta – dj, scrittore, attivista del cibo – che alle Giornate degli Autori di Venezia presenterà il suo primo lavoro da regista: I villani, un documentario che attraversa l’Italia dalla Sicilia al Trentino per raccontare la cucina popolare del nostro Paese – una tradizione che sta morendo spazzata via dalla globalizzazione, le normative comunitarie, la moda della cucina di lusso alla Masterchef. Così nel film donpasta segue la giornata di lavoro dei suoi quattro protagonisti: coltivatori, pescatori e allevatori, proprio per salvaguardare un sapere – e tramandarne l’importanza.

Come è nato il progetto dei «Villani»?
La prima parte della mia carriera era più incentrata sul concetto di performance, ed è finita con il libro La parmigiana e la rivoluzione, una sorta di manifesto militante del fritto. Poi mi sono accorto che c’è un problema di comunicazione attorno al cibo: si parla di impiattamenti, scalogni, riduzioni… Ma la cucina italiana è nata dal popolo, per il popolo, è dialettale e non borghese, né la cucina tecnica degli chef. Allora è iniziato un lungo viaggio per la scrittura di Artusi remix: ho attraversato tutta l’Italia e raccolto 500 ricette, riprendendo l’idea di Artusi di raccontare la cucina familiare, quotidiana. Ho incontrato tantissime nonne che mi hanno cucinato cibi meravigliosi: non si poteva non raccontare questa cosa anche attraverso il video, così è nata la serie di ritratti di cinque minuti Le nonne d’Italia in cucina. E poi c’erano i loro mariti che mi mostravano l’orto di casa. Sono persone in un certo senso espulse dalla modernità: i piccoli produttori, gli artigiani, le nonne che friggono nello strutto. Sempre di più mi accorgevo che fra queste persone spesso analfabete, perse in luoghi remoti, c’era una sapienza – un rispetto della natura, delle stagioni, del lavoro – gramscianamente democratica. I meravigliosi sforzi di Slow Food e di tutti i movimenti militanti per salvaguardare i piccoli produttori omettono secondo me un’informazione fondamentale, e cioè che siamo in una fase in cui chi è povero mangia molto male, e rischia di farlo sempre peggio. Mentre prima era il contrario: chi ha sempre saputo mangiare bene, in modo rispettoso della natura, dell’ambiente e del lavoro era proprio il popolo povero che costruiva a partire da niente il patrimonio della cucina italiana – che appartiene a una dimensione democratica, corale e accessibile a chiunque. E il mio film è figlio di quest’analisi, del dramma che si verifica quando al popolo viene alienato un sapere, una conoscenza. Quindi il viaggio ha cominciato a riguardare sempre più il fatto che non si può parlare di cucina italiana separandola dalla cucina del popolo aggredita dal capitalismo, dalle leggi sanitarie, dal consumismo.

La cucina ha dunque anche una valenza politica, di rivendicazione dell’orgoglio working class.
Il capitalismo ha fatto danni manifesti nel campo del cibo e dell’agricoltura: facendoci mangiare veleni, schiavizzando i migranti, costruendo una separazione tra ricchi e poveri e arricchendo le multinazionali come la Monsanto. Dunque da un lato serve consapevolezza, gruppi d’acquisto solidali e forme nuove di distribuzione. Dall’altro – che è il motivo per cui ho fatto I villani – non si può fare un’analisi corretta di cosa sia l’agricoltura e la cucina in Italia se non si parte proprio dalla working class – l’«infrastruttura» di una cucina che tutti nel mondo amano, vendono e studiano. Non si può fare politica – e ora lo capiamo in modo evidente – se non si riparte dal popolo.

Che ruolo hanno in tutto questo le decine di programmi di cucina come Masterchef?
Dal momento in cui la cucina italiana è appunto popolare, saper cucinare nella cultura mediterranea non è semplicemente impiattare o fare una riduzione. È un atto sociale, di democrazia e costruzione di comunità. Ma con questi programmi si dà l’idea, ad esempio, che l’impiattamento è più importante della «cofana» di pasta, che questa sia brutta, sporca, volgare – villana. Così si contribuisce alla perdita della dimensione più profonda del cibo. Non si annulla solo una tradizione, ma degli strumenti cognitivi di interpretazione della realtà.

E le normative europee?
Nel corso del viaggio per Artusi remix siamo stati anche in Sardegna, e ho imparato come si fa il pane carasau in un paesino della Barbagia dove la pasta madre viene passata da persona in persona da millenni. Ma ora in teoria non si potrebbe più fare così: per timore del germe della pasta madre e anche perché il pane non si può più cuocere a legna, per via del fatto che la fuliggine è cancerogena. Il germe della pasta madre è «da perseguitare» – e questo è il primo esempio di come una normativa comunitaria sulla salute pubblica uccide ancora una volta gli strumenti di condivisione: per una presunta idea di sanità del corpo si distrugge un sapere millenario, che ha portato invece a una grande manifestazione di «sanità»: la dieta mediterranea. E poi c’è un altro dramma: per adattarsi alle normative comunitarie bisogna fare un pesante investimento iniziale, ma gli artigiani del cibo – spesso legati a equilibri economici minuscoli – così vengono distrutti o costretti a un aumento della produzione. Ma un prodotto artigianale non può per sua natura rispondere alle leggi della produzione intensiva. I piccoli grandi eroi del mio film, che sembrano dei naufraghi della modernità, operano infatti una resistenza come quella di Antigone, che sceglieva di seppellire il fratello obbedendo a leggi che gli esseri umani si erano dati nel corso dei millenni invece che a quelle del re.