Una singolare corrispondenza lega, da un lato, lo sprezzo o l’indifferenza che il mondo accademico italiano a lungo ha riservato a Giorgio Agamben, e, dall’altro lato, l’orgoglio con cui egli fa scrivere sulle quarte di copertina dei suoi libri che si è dimesso dall’insegnamento universitario, quasi fosse un momento non trascurabile della sua vicenda intellettuale. Sono poche, quasi assenti, le occasioni in cui il lavoro di ricerca – così accuratamente distinto da Agamben dal più edificante studium – nelle università italiane si volge a interrogare un pensatore che, invece, nelle università estere può vantare grande fama soprattutto a partire dall’avvio del progetto su homo sacer, nel 1995.

A PARTE UN RECENTISSIMO risveglio dell’interesse, soprattutto in qualche giovane studioso, l’ambiente critico filosofico italiano continua a non tributare ad Agamben l’attenzione che meriterebbe, relegandolo a figura aneddotica, concedendo al suo pensiero dimora solo a margine delle attività scientifiche.
Una «damnatio memoriae» di cui ci si rende conto già solo avviando una semplice ricerca del materiale scientifico prodotto sul pensiero agambeniano o a partire da esso: i nomi italiani e la lingua italiana iniziano solo da pochi anni ad apparire, mentre abbondano da decenni l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese. Risulta perciò altamente meritoria l’operazione intrapresa da Valeria Bonacci, consistente nella raccolta e traduzione di un gran numero di articoli finora inediti in italiano, firmati dai più importanti studiosi del pensiero agambeniano, in un volume pubblicato da Quodlibet: Giorgio Agamben. Ontologia e politica (pp. 576, euro 26).

ESSO CONCORRE a riportare nel dibattito italiano un pensatore così complesso ed evitato, ma soprattutto invita ad affrontarne l’opera nei perenni détours tra ontologia e politica, e non solo limitatamente alla sola dimensione politica come lettori poco avvertiti hanno effettivamente fatto finendo per concentrare il fuoco dell’attenzione sulla sola serie Homo sacer, e trattando il resto del pensiero agambeniano come uno sfondo secondario – al più, funzionale – rispetto a un pensiero politico che, letto con i canoni della filosofia politica tradizionale, risulta inevitabilmente insoddisfacente, impolitico e perfino incomprensibile.
Affacciarsi sulla dimensione ontologica dell’impresa agambeniana significa in primo luogo osservare il suo risvolto politico come una delle specificazioni di una geometria che caratterizza l’intero pensiero occidentale, di una gestualità di cui riscoprire quella fondamentale indicibilità che permette di dire tutto ciò che possiamo dire.

IL VOLUME CURATO da Bonacci è un invito a ben intendere l’opera agambeniana alla luce della tutt’altro che pacifica questione politica della nostra ontologia e dell’altrettanto problematica questione ontologica della nostra politica. Il connubio inscindibile di ontologia e politica, descrivibile mediante la movenza dell’eccezione, qualifica la nostra politica come al contempo sovrana e biopolitica, essendo essa momento decisionale che definisce l’ontologia dell’uomo e il suo abitare storico nel mondo, al costo di una inevitabile esclusione. Nell’antichità si è prodotto l’uomo umanizzando la bestia; l’epoca moderna ha assunto la vita come un interesse primario e ha fatto dell’animalizzazione dell’uomo il risvolto mortifero della cura della vita umana, dell’assegnazione a ciascuna vita di una forma che la identifica e, insieme, la cattura.

IL POTERE IN OCCIDENTE si è sempre posto come snodo di una parentela inscindibile tra la positività metafisica e la negatività nichilistica; una negatività che non solo destina all’abbandono per salvaguardare ciò che è dentro il confine dell’umano, ma che, per far ciò, relega all’oblio l’orizzonte di quella medialità pura, di mezzi senza fini, di potenza che «preferisce» revocare il proprio riversarsi nell’atto, in cui risiede davvero la dimora più originaria dell’uomo.
Un orizzonte che Agamben invita a riconquistare al libero uso, mediante un potere destituente che salva ciò che nella storia non fu mai, passando per la radicale disattivazione degli stessi principi che sostengono il nostro pensiero e la nostra azione.