Nei primi anni del suo soggiorno parigino, dopo il 1927, il venticinquenne Alexandre Kojève aveva scelto di dedicarsi allo studio della fisica e della matematica, con una apparente deriva rispetto agli interessi più giovanili, rivolti alla mistica orientale e alla teosofia russa. Negli stessi anni, riflettendo sulla filosofia di Hegel e sul contributo di Marx (mentre maturava il contenuto delle sue fondamentali lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito), Kojève aveva raggiunto la convinzione che soltanto il «Mondo storico» (frutto del lavoro umano) sia suscettibile di una piena comprensione: «affermare, come fa Hegel, che ogni comprensione è dialettica e che il Mondo naturale è comprensibile, significa affermare che questo Mondo è l’opera di un Demiurgo, di un Dio-creatore concepito a immagine dell’Uomo lavoratore». Al contrario, sulla scorta di Marx: «Solo il mondo trasformato dal Lavoro umano si rivela nel e mediante il Concetto, esistente empiricamente nel Mondo senza essere il Mondo. Il Concetto è dunque il Lavoro, e il Lavoro è il Concetto».

Giocando con Kant
Ora, al di là di questa distinzione tra mondo-trasformato e mondo-dato, restava da chiarire perché mai il secondo debba sfuggire di necessità alla comprensione umana. E la ragione – secondo Kojève – non risiede soltanto nel fatto che il mondo-dato, quello della natura, non è un prodotto dell’attività umana. Ci sono ragioni di merito, più specifiche, che costringono l’intelletto alla resa – secondo Kojève – quando questo pretende di confrontarsi con il mondo fisico. Queste ragioni sono esposte appunto in un volume che precede di circa un anno le lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito, e che riguarda direttamente la fisica classica e quella contemporanea. Nel libro (concluso nel 1932 e ora pubblicato in italiano con il titolo L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (a cura di Mauro Sellitto, Adelphi, pp. 328, euro 32.00), Kojève mette in questione quello scire per causas che dalla fisica aristotelica è pervenuto alla scienza e alla filosofia moderna, come principio regolativo della vero sapere.

Come il titolo del volume rivela, la fragilità del «principio causale» non verrebbe alla luce con le rivoluzioni scientifiche del XX secolo; già nella fisica classica il determinismo – ossia la tesi secondo la quale «nel mondo fisico nulla è fortuito, tutto è prevedibile; ogni fenomeno ha una causa che necessariamente lo precede, cosicché, conoscendo la causa, se ne conosce di conseguenza l’effetto» – sarebbe soltanto un’idea limite, un principio regolativo, «indispensabile solo per speculazioni generali, sperimentalmente incontrollabile e dunque estraneo al campo proprio della fisica». E, sebbene questa tesi sia ampiamente condivisibile (perché: 1) tutte le misure sono affette da errori; 2) la maggior parte dei fenomeni fisici consente soltanto previsioni approssimate; 3) la potenza dei calcoli non è illimitata), appare per molti versi bizzarra la strategia che Kojève utilizza, per raggiungere il suo obiettivo polemico: il mondo per il quale il principio causale viene messo alla prova è infatti la totalità delle cose esistenti, e comprende dunque le stesse menti che lo osservano, per valutarne le proprietà. Il mondo classico che Kojève analizza coincide allora con quelle totalità (o idee trascendentali della ragion pura) che Kant aveva indicato come fonti di paralogismi (il Mondo, ovvero la totalità dei fenomeni esterni; l’Anima, ovvero la totalità dei fenomeni esterni; Dio, ovvero la totalità dei fenomeni, sia interni che esterni).

Insomma: è come se Kojève si divertisse ad utilizzare argomenti giudicati fallaci da Kant, per mostrare che essi vanno a investire la stessa relazione causale, una categoria necessaria dell’attività trascendentale dell’intelletto, che per Kant era in grado di conferire all’esperienza un valore universale. Del resto, questo «giocare» con Kant – giudicato da Kojève come il filosofo più importante, nella storia della filosofia – non deve stupire: di lì a qualche anno Kojève avrebbe sostenuto che quello kantiano è in definitiva un sistema proto-hegeliano, che mascherava a stento un’aspirazione teologica, camuffando Iddio nella figura della cosa-in-sé.

Ma è nell’analisi della fisica del Novecento che la critica di Kojève al determinismo trova una sponda scientifica. Qui, leggendo i suoi argomenti, si avverte subito l’ambiente culturale della sua formazione, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso: il periodo immediatamente successivo al convegno di Como, del 1927, durante il quale i più grandi fisici del tempo (Plank, Bohr, Rutheford, Marconi, Heisenberg, Dirac, Pauli, Majorana, Fermi e tanti altri) si erano radunati per discutere il significato della nuova fisica. Tra i grandi, Albert Einstein era assente, in esplicita polemica con il fascismo italiano; ma la sua presenza incombeva, così come quella dell’altro grande assente Erwin Schrödinger, entrambi inclini a non rinunciare a qualche forma di determinismo.

Kojève sposa invece, con slancio, le tesi di Bohr; e soprattutto quelle di Heisenberg, poi classificate sotto l’etichetta «interpretazione di Copenaghen». In particolare, il punto cruciale dell’indeterminismo quantistico viene individuato da Kojève nel cosiddetto «effetto osservatore», cioè nell’interazione tra sistema di misura e sistema osservato; un’interazione che – secondo l’interpretazione canonica – sarebbe l’autentica origine dell’impossibilità di conoscere simultaneamente le grandezze dinamiche necessarie, perché si possa parlare sensatamente di relazioni causali. In verità, l’indeterminazione delle grandezze in questione (posizione ed impulso) non dipende dal fatto che le si osservi: è già implicito nel modo in cui esse sono definite, nella fisica quantistica. E l’argomento che Kojève utilizza, per sostenere la sua tesi (quello dell’interazione tra sistema di misura e sistema osservato) è proprio quello tuttora aperto (e per molti aspetti misterioso) nella fisica che abbiamo ereditato dal Novecento: è il problema della misurazione, legato al fatto che il passaggio dall’indeterminato al determinato – quando si misura una certa grandezza osservabile, in un sistema quantistico – deve essere introdotto come un postulato della teoria, imponendo uno scarto stranissimo rispetto a ciò che la stessa teoria afferma da un’altra parte, circa l’evoluzione spontanea (e assolutamente determinata) di un sistema quantistico che evolva nel tempo.

Le osservazioni di Kandiskij

A parte questi limiti – che datano assai le riflessioni di Kojève, all’attualità del suo tempo – il libro resta una testimonianza vivissima di cosa possa l’intelligenza di un filosofo e di un umanista, quando s’interroghi, con cognizione di causa, sui dettagli di una teoria scientifica: con una freschezza, una precisione, un’attenzione ai dettagli che è molto difficile trovare nelle riflessioni dei protagonisti della scienza. Ed anche con un’ironia sottilissima: mentre Kojève coltivava, per sua stessa ammissione, un’ammirazione per Stalin (e qualcuno volle attribuirgli addirittura una vicinanza al KGB, il servizio segreto sovietico), suo zio Vasilij Kandinskij – leggendo il manoscritto – volle riconoscervi «la libertà, come capacità di ironizzare sulla Legge Causale (Kausalgezetz), così esibita dai “maestri del Cremlino”, così come dai nazisti che hanno voluto chiudere il Bauhaus».