Il drammatico crollo del ponte Morandi di Genova ha aperto uno squarcio nel più granitico dogma della storia italiana recente: un sostegno bipartisan, continuativo e energico alle privatizzazioni, che dai governi Amato e Ciampi hanno funestato ogni singolo anno della Seconda Repubblica (salvo il 2011); salvo prendere le distanze con affermazioni di circostanza (si pensi a Renzi) viste le catastrofiche conseguenze. Quest’estate l’indignazione collettiva verso la gestione di Autostrade spa e dei termini delle relative concessioni è stata tale da far parlare anche in area di governo di rinazionalizzare.

Naturalmente Repubblica, Corriere, Stampa, il Giornale si sono gettati in una unanime deplorazione.

Fra essi spicca la campagna stampa di Repubblica, passata in modo creativo dalla difesa ventre a terra dei diritti di concorrenza e mercato, alle lezioni di Veltroni su come costruire la nuova sinistra. Nel fronte dei progressisti pro-privatizzazioni, fra Zucconi e Sabino Cassese (il giurista che dopo aver partecipato al governo Ciampi ha collezionato diverse poltrone munificamente concessegli dal padronato italiano in banche, assicurazioni, aziende) l’inserto di Repubblica Affari&Finanza (per l’appunto) fa venire il dubbio di aver comprato per errore il quotidiano di Confindustria: le privatizzazioni sono state una «scelta ideologica di modernità», ma «una scelta obbligata», i cui frutti «vanno direttamente a riduzione del debito pubblico». In effetti il redattore, Eugenio Occorsio, lavorava al Sole 24-Ore.

Ridurre il debito pubblico attraverso le privatizzazioni è insensato. Primo perché sono non rendono abbastanza (Occosio cita una cifra di 110 miliari, ma il debito è aumentato da circa 910 a oltre 2300 miliardi fra il 1992-2018); secondo perché andrebbe fatto il saldo con gli incassi cui lo Stato rinuncia, ed il prof. Massimo Florio ha calcolato che le aziende rimaste allo Stato, lungi dall’essere carrozzoni in perdita garantiscono redditività buona nel loro complesso, anzi sopravanzano il campione delle 30 maggiori aziende private considerate come paragone.

Perciò occorre considerare se lo spregio per le aziende di Stato (da organi di stampa vicini ai potentati imprenditoriali) non sia spiegabile col celebre motto per cui «chi disprezza compra».

Infine va notato che se registriamo una riduzione del debito rispetto al PIL significativa fra 1998-2007 di -11%, parallelamente però si ha l’aumento dell’indebitamento privato di ben +34%.

È l’austerità che ha contenuto il debito. Le vere finalità sono invece ravvisabili in altri obiettivi: in primis ridurre il perimetro della azione dello Stato nell’economia, usando il vincolo della entrata nella UE, come ammette candidamente D. Scannapieco, un collaboratore di Draghi dell’epoca: «Si è sfruttata l’occasione offerta dalla necessità ed urgenza di rispettare gli stringenti vincoli esterni, imposti dalla partecipazione all’Unione Monetaria Europea, per avviare iniziative volte alla ridefinizione del ruolo dello Stato ed alla riforma, in senso maggiormente concorrenziale, dei mercati. senza la pressione di questi vincoli comunitari sarebbe venuto meno uno degli stimoli più incisivi a procedere con decisione nel processo di risanamento della finanza pubblica e di riqualificazione del rapporto tra Stato e mercato».

In secondo luogo sono state un fattore necessario per la finanziarizzazione dell’economia che ha il suo perno nella borsa, come ammette lo stesso Draghi: «le operazioni di privatizzazione che hanno smantellato il sistema delle partecipazioni statali si proponevano specificamente fra gli obiettivi quello di contribuire a una crescita del mercato azionario».

Più concorrenza e mercato, più finanza, regali ai ricchi e tariffe maggiori per i servizi: con «sinistre» così che bisogno c’è di una destra?