Poliziotti che sparano contro i manifestanti, attaccano pacifiche fiaccolate in onore delle vittime, usano gli idranti per impedire i soccorsi ai feriti, manganellano semplici passanti: tutto filmato in diretta e trasmesso sulle reti sociali e sui siti alternativi di innumerevoli gruppi e organizzazioni.

È qui che si sta scrivendo la vera storia della brutale repressione delle forze dell’ordine colombiane contro le proteste popolari anti-governative che vanno avanti ininterrottamente dal 28 aprile. Il bilancio si aggrava di giorno in giorno: 24 le vittime accertate dalla Defensoría del Pueblo (23 civili e un poliziotto), 89 persone scomparse e oltre 800 feriti, mentre altre organizzazioni parlano di 37 morti.

Tra le ultime vittime, il 27enne Lucas Villa, studente di Scienze dello Sport, artista e professore di yoga, uno dei volti più apprezzati e popolari della protesta, raggiunto da otto spari, la notte del 5 maggio, nel viadotto Cesar Gaviria della città di Pereira e ora in condizioni gravissime.

È questa una storia completamente diversa da quella raccontata dalle autorità, che si scagliano contro gli episodi di vandalismo e violenza da parte di gruppi di manifestanti – che in ogni caso non bastano a mettere in ombra il carattere pacifico della protesta – ma non dicono una parola sulla carneficina in corso.

E anzi sostengono, come fa il ministro della Difesa Diego Molano, che «la prima cosa che deve sapere la Colombia è che la polizia opera nel più stretto rispetto della legge e dei diritti umani».

Così, dopo essersi finalmente deciso a esprimere il proprio generico cordoglio per le «vittime di violenza», intesa ovviamente come violenza vandalica, il presidente Duque ha dichiarato senza prove che dietro le «legittime aspirazioni» dei manifestanti si nasconderebbe «la minaccia di un’organizzazione criminale», riferendosi alla presunta infiltrazione di «mafie del narcotraffico».

E fa un certo effetto sentirlo da colui che i colombiani chiamano «subpresidente», cioè la marionetta dell’ex presidente Álvaro Uribe, i cui vincoli con il narcotraffico sono noti anche alle pietre. Ma Duque, che nel frattempo ha incassato l’appoggio degli imprenditori – convinti della necessità di «difendere il governo che ci piaccia o no, difendere l’esercito, la polizia, l’Esmad – si è spinto anche oltre, offrendo una ricompensa di 10 milioni di pesos per chi collaborerà all’identificazione e alla cattura dei responsabili di atti di vandalismo.

Ma sulla repressione che si consuma per le strade della Colombia – 1.708 i casi di abuso della polizia registrati dalla piattaforma Grita – si sono finalmente accesi i riflettori internazionali, soprattutto in seguito alla violenza di cui è stata oggetto la missione di verifica costituita da funzionari della Defensoría del Pueblo, della Procura generale, delle organizzazioni sociali e dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani.

L’inaudita aggressione è avvenuta a Cali la notte del 3 maggio, quando la missione umanitaria, giunta alla stazione di polizia Fray Damián per controllare le condizioni dei detenuti, era stata insultata, circondata, minacciata e infine cacciata da agenti della polizia che le avevano persino sparato contro, con gli abitanti del quartiere accorsi a soccorrerla facendo da scudo umano.

«Siamo stati testimoni dell’uso eccessivo della forza da parte di agenti della sicurezza, con colpi di arma da fuoco, aggressioni e arresti», ha denunciato la portavoce dell’Alto commissariato Marta Hurtado.

Ma sulla violenza in atto si è pronunciato, attraverso il suo portavoce Stéphane Dujarric, lo stesso segretario generale Onu António Guterres, esprimendo «grande preoccupazione» per le violazioni dei diritti umani registrate durante le proteste, mentre centinaia di colombiani inondavano mercoledì il canale Youtube dell’Onu, durante la trasmissione in diretta di una serie di conferenze, di messaggi di un unico tipo: «S.O.S Colombia».