«Se alla Germania venisse dato un Mussolini tedesco… il popolo si getterebbe in ginocchio per adorarlo più di quanto non sia mai accaduto con lo stesso Mussolini». È nell’ottobre del 1923 che, intervistato dal quotidiano britannico Daily Mail, Adolf Hitler pronuncia queste parole, non solo una sorta di profezia che sogna si possa avverare, ma un evidente omaggio al leader del fascismo italiano, simbolo e modello per analoghi movimenti di tutta Europa.

NEL SECONDO CAPITOLO della sua monumentale trilogia dedicata alla figura di Mussolini e alla storia del fascismo, M. L’uomo della provvidenza (Bompiani, pp. 648, euro 23), Antonio Scurati annota questo commento del futuro Führer del Terzo Reich che guarda ad un Paese dove le camicie nere, e il loro capo, non hanno solo conquistato il potere, ma si preparano a mettere radici profonde nella società. Perché gli anni presi in esame nel volume, quelli che vanno dal 1925 al 1932 segnano proprio la piena «fascistizzazione» del Paese, il definitivo consolidamento del regime. Se al debutto dell’opera con M. Il figlio del secolo, pubblicato nel 2018, si trattava di descrivere il clima incerto, intriso di morte e polvere da sparo, speranze cresciute nelle trincee e frustrazioni dei nuovi ceti emersi all’alba del Novecento che fecero da sfondo, insieme alla crisi della fragile democrazia italiana, alla comparsa e all’affermazione dei fascisti, qui è il modo attraverso cui quella vittoria si tramutò giocoforza in un’egemonia a dominare la scena. E in questo gigantesco «romanzo documentario», dove ogni figura e avvenimento sono scrupolosamente ricondotti alle fonti dell’epoca, è ancora una volta «il corpo» del Duce a fungere da catalizzatore delle illusioni e delle contraddizioni degli italiani.

NEGLI ANNI che segneranno il varo delle leggi dette «fascistissime», l’insediarsi del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, la progressiva cancellazione di ogni opposizione – ma anche la firma dei Patti Lateranensi che altri consensi guadagnò al regime – e che erano stati introdotti dal celebre discorso con il quale Mussolini stesso, il 3 gennaio del 1925 alla Camera, si era assunto «la responsabilità politica, morale e storica» di quanto stava avvenendo nel Paese, e della morte di Giacomo Matteotti, Scurati racconta il travaglio di un uomo scosso da violenti attacchi d’ulcera, che si interroga sul suo futuro vomitando sangue sul pavimento del suo alloggio romano. Ma accanto all’intimità del corpo del Duce, non solo quella della malattia, ma anche quella degli incontri con le sue numerose amanti, c’è la consapevolezza del suo ruolo: «la grandezza tragica della situazione è questa: se io muoio tutto si sfascia».

NELLA COSTRUZIONE della macchina della propaganda il suo ruolo è determinante. «L’ostensione del corpo del Duce – annota Scurati – è incessante, l’uomo delle folle vede scorrere davanti ai suoi occhi un Paese squassato dal lavoro (…) Si regolano torrenti, si preparano bonifiche, si elettrificano le strade ferrate. Mussolini inaugura, promette, partecipa in prima persona». Il suo volto e il suo corpo dominano i cinegiornali dell’Istituto Luce. Mentre a dieci anni dalla Marcia su Roma, nell’ottobre del 1932, a compimento di questa stagione del regime che già ne annuncia un’altra, sarà la Mostra della rivoluzione fascista allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma a «evocare la “concezione totalitaria e integrale del regime fascista”», attraverso «quattro giganteschi fasci metallici di venticinque metri d’altezza in lamiera di rame brunito, impiantati su un cubo rosso»: quasi «una corazzata» nel bel mezzo della capitale.

L’immagine del consenso fa però il paio con la repressione, l’ombra del capo con quella dei suoi zelanti sgherri. Accanto a Mussolini sono perciò non a caso due le figure che Scurati sceglie di raccontare a fondo per definire l’affermazione del regime e il suo proiettarsi già verso la stagione della guerra. Si tratta di Arturo Bocchini, capo della polizia e fondatore dell’Ovra, cui il Duce ha affidato non solo il compito di reprimere ogni voce dissenziente, ma di «rieducare un popolo, ortopedizzare una nazione». Non più soltanto sorvegliare e punire, ma un controllo che deve «intramarsi alla fibra più intima della vita quotidiana di milioni di italiani».

L’altro è un militare, il generale Rodolfo Graziani, veterano delle guerre africane che nel giugno del 1930 guiderà in Cirenaica «una delle più grandi deportazioni della storia del colonialismo europeo». Le missive che arrivano da Roma parlano di «annientamento» di quanti tra la popolazione locale si oppongono ai nostri soldati. La risposta sarà l’uso massiccio dell’iprite: solo per una rappresaglia nella zona di Cufra, nel sud della Libia, Graziani ordinerà di sganciare una tonnellata di gas sui «ribelli». Il successo della campagna sarà così assicurato.