La questione abitativa o viene ignorata o è affrontata come questione di ordine pubblico, come è successo a Roma con lo sgombero dei profughi eritrei accampati in un palazzo di piazza Indipendenza o come avviene quotidianamente, nel silenzio generale, con l’esecuzione di migliaia di sfratti nelle medie e grandi città. Dietro la categoria della “legalità”, con cui spesso una certa stampa liquida l’argomento, vi sono le difficoltà e le sofferenze di chi non ha un tetto sopra la testa e un letto in cui dormire. Ma di fronte alle clamorose inadempienze del governo e delle istituzioni locali, impotenti e incapaci di dare una risposta al bisogno di un alloggio, proliferano in Italia una miriade di tentativi di trovare soluzioni creative e innovative.

VOGLIO SEGNALARE, In particolare, un’esperienza che considero positiva. A Roma, a via di S. Croce in Gerusalemme, l’ex Inpdap è occupata, da circa 3 anni, da 150 famiglie di italiani e di immigrati. C’è stato un notevole lavoro di auto-recupero per adattare i vecchi uffici in piccoli e medi appartamenti. Poi, nel piano sotterraneo dove c’era l’auditorium e diversi saloni per conferenze e riunioni, si sono creati locali di ristorazione, sale per concerti o per mostre, si svolgono attività di cineforum e di presentazione di libri, c’è una sala dove si insegna tango, un laboratorio di serigrafia, un altro di falegnameria, nel quale un peruviano crea o ristruttura tavoli, armadi, sedie e mobili in genere. Nel cuore della città si sta sperimentando un modo nuovo di intendere l’abitare, i servizi condominiali e alla domiciliarità. Si è creato uno spazio di co-working in un rapporto aperto con i residenti del quartiere. Un esempio di convivenza ed integrazione. Che cosa c’è di “illegale” in tutto questo?

IN UN CERTO SENSO, i movimenti degli occupanti potrebbero essere paragonati ai contadini poveri che, nel dopoguerra occupavano le terre incolte o mal coltivate dei latifondisti. Nel latifondo si annidava la rendita fondiaria. In un contesto mutato, negli edifici inutilizzati o abbandonati si annida la rendita urbana, anche quella assenteista.

Gli occupanti di oggi possono essere considerati l’avanguardia della lotta alla rendita, da cui passa gran parte della politica redistributiva. La rendita immobiliare non è un concetto astratto, ma esprime un blocco di interessi che lega proprietari fondiari, imprese di costruzione e banche e che è all’origine di un’espansione urbana incontrollata, di periferie degradate, di servizi inefficienti o inesistenti.

Questo blocco di interessi, che comanda nei nostri comuni (tranne alcune rare eccezioni), ha decretato in Italia la fine dell’edilizia economica e popolare, ha generato un forte aumento dei fenomeni di esclusione abitativa e sociale, ha contribuito a falcidiare il reddito delle famiglie di ceto medio per i crescenti costi dell’abitare.

IL MIO RAGIONAMENTO, dunque, tende a escludere che si possa parlare di questione abitativa ignorando il ruolo e il peso della rendita. Vi sono studi della Banca d’Italia che spiegano come il declino industriale e produttivo dell’Italia sia andato di pari passo con la crescita impetuosa della rendita immobiliare, che solo dopo la crisi iniziata nel 2008 ha subito una relativa frenata. Abbiamo assistito in Italia a un colossale trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita immobiliare e finanziaria. Mutui casa e canoni di locazione sono alcuni dei modi di questo trasferimento. E la crescita delle diseguaglianze sociali in Italia è esattamente l’altra faccia della rendita.

CON UNA SOSTANZIALE continuità tra i governi di centro-destra e di centro-sinistra, in Italia si è alimentata e incentivata in tutti i modi la “casa in proprietà”. Si è creato così un forte squilibrio tra proprietà ed affitto: i proprietari che nel 1965 erano il 45% sono passati all’80% di oggi. Ciò è fonte di distorsioni nell’economia, nella società, nei consumi. L’asfittico mercato delle locazioni è quasi tutto in mano ai privati, soprattutto dopo la vendita di quasi tutto il patrimonio abitativo degli enti previdenziali e di parte di quello gestito dagli ex Iacp.

LE FORME DI LOTTA radicali dei movimenti per la casa sono dunque la conseguenza di un problema che non trova sbocchi attraverso i canali istituzionali. Ecco perché è riduttivo parlare di “emergenza abitativa”. Siamo in presenza, invece, di una “questione abitativa”, che è questione “strutturale”, con forti implicazioni sul reddito, sullo sviluppo, sull’ambiente, sulla crescita e sulla qualità urbana, sui rapporti sociali.

LA CHIAVE DI VOLTA per affrontare il disagio e le nuove domande abitative è dunque un cambio di paradigma, uno spostamento del baricentro delle politiche abitative dalla proprietà all’affitto. Riscoprendo il valore d’uso della casa. Mettendo in discussione la cosiddetta finanziarizzazione del mattone, che incorpora un’idea dell’abitare che è tutto valore di scambio e poco o niente valore d’uso. Puntare oggi sull’affitto a un canone accessibile, comunque commisurato al reddito familiare, significa riscoprire l’abitazione come servizio alla famiglia. La casa a “geometria variabile”, adattabile, che cambia in base ai diversi percorsi di vita e di lavoro.