«Lo scriva ben chiaro, per favore: l’Islam non ha nulla a che vedere con la violenza, basta leggere il Corano. Chiunque semini morte non può dirsi musulmano». A parlare è Mansur Ata, vicepresidente della comunità islamica Ahmadía, con sede a Cordoba e rappresentanza in vari paesi e in tutto il territorio spagnolo, dove è presente dal 1946. Più di settant’anni, molti dei quali in clandestinità, di attivismo religioso e sociale, nel seno di una società con vincoli culturali e storici con il mondo musulmano unici in Europa.

È più facile essere musulmani in Spagna?

Finora lo è stato. La società spagnola è tollerante, come dimostra l’assenza di derive razziste nella società civile o di forze politiche apertamente xenofobe. Nel caso dell’Islam, le ragioni vanno individuate nella prossimità geografica e nella commistione culturale, ma anche in un fatto religioso: le fondamenta etiche e morali della società spagnola sono ancora saldamente poggiate sui precetti del cristianesimo, che garantiscono (almeno a livello di convivenza quotidiana) un livello di empatia e di accoglienza maggiore che in paesi tradizionalmente più laici.

Eppure molti giovani musulmani che vivono in Spagna (soprattutto nella provincia di Barcellona, la maggior sacca di radicalizzazione a livello nazionale), intraprendono un percorso di estremizzazione.

La religione islamica è agli antipodi della violenza. Tuttavia, qui come altrove, accade che l’Islam venga asservito agli interessi di determinate dittature o gruppi di potere. La jihad – vale la pena sottolinearlo – è un fenomeno politico, non religioso. Ovviamente questa strumentalizzazione grossolana del sentimento religioso usato come mero vettore di ideologie politiche attecchisce solo tra gli strati culturalmente ed economicamente marginali, i più suggestionabili dalla propaganda jihadista.

Però sembrerebbe che questa identificazione della politica con la religione eserciti un richiamo particolare nel mondo islamico.

È vero nella misura in cui nel mondo musulmano – usiamola come definizione di comodo – esiste un livello di arretratezza economica e culturale alimentata del perenne stato di conflitto in cui versa quest’area geopolitica. Tuttavia tale percezione viene spesso amplificata dai mezzi di comunicazione occidentali e dall’uso quanto meno imprudente dell’etichetta «islamico» associata a qualunque fatto di violenza lontanamente riconducibile a un contesto musulmano. Si immagini che ogni volta che un cattolico commettesse un qualsiasi crimine, se ne specificasse ossessivamente il credo religioso: probabilmente ne ricaveremmo la sensazione che esiste una correlazione tra cattolicesimo e violenza.

La comunità musulmana in Spagna sta facendo qualcosa per prevenire fenomeni di radicalizzazione tra i giovani?

Lavora capillarmente sull’educazione e la diffusione del messaggio autentico del Corano. La corretta esegesi del Libro Sacro è uno dei maggior deterrenti all’estremizzazione.

E che cosa può fare, invece, la società civile?

Restare aperta, non aver paura della diversità, educare all’accoglienza e all’ascolto. Può sembrare paradossale in coincidenza di fatti così tragici, ma solo se c’è qualcuno disposto ad ascoltare potremo far sentire il nostro messaggio di pace, il vero messaggio dell’Islam.

Crede che quello che è successo possa incrinare i rapporti tra la comunità musulmana e il resto della società civile spagnola?

Spero di no, ma temo di sì: è difficile che la pandemia xenofoba non contagi, prima o poi, anche la Spagna. Ma del resto la nostra missione è proprio quella di fare in modo che la gente distingua tra musulmani e terroristi.