La manciata di anonima suburbia a sud di San Francisco nota come Silicon Valley è ormai una specie di terra santa l’ombelico del presente digitale, centro del nuovo ipercapitalismo nonché epicentro del culto tecno-consumista che pervade le nostre vite. La religione del «silicon» ha i suoi demiurghi in girocollo nero, i suoi riveriti profeti-bambini con gesta decantate in telefilm biografici e urban legend, i suoi santuari in forma di campus ecosostenibili , e miliardi di devoti fedeli.

Una vasta congregazione di adepti del nuovo «cargo cult» è sempre pronta ad osannare l’ultimo gadget-talismano piovuto dal cielo grazie agli innovatori che emanano benevolenza e modernità da quella magica valle. La stampa, specie quella delle province esterne, li asseconda, devotamente proferendo le invocazioni prescritte: «google glass…startup…instagram». Alcuni, più riverenti, azzardano:«stampante 3D..».

Nell’imperante cultura tecnofila ci sono insomma abbondanti estremi per una satira di costume di cui si sentiva decisamente il bisogno. Ci ha pensato Mike Judge con Silicon Valley, la nuova sitcom HBO che tratta la «new economy mentale» con la giusta dose di causticità che merita. Gli otto episodi della prima stagione si sono appena conclusi negli Usa e li vedremo in Italia a settembre, la serie è stata infatti acquistata da Sky e inserita nel palinsesto del canale Sky Atlantic. Judge è un dissacratore seriale: sono suoi tele-cartoon cult Beavis and Butthead e King of the Hill oltre a film come Office Space e Idiocracy – satire spietate su piccole angherie e imperanti stupidità che lo hanno confermato come uno degli autori più graffianti della new comedy radicata nell’animazione (assieme a Trey Parker e Matt Stone diSouth Park e Aaron McGruder di Boondocks). Dopo essersi occupato di adolescenti scemi e redneck texani, il filmmaker volge ora il suo implacabile obbiettivo sui nerds.

mikejudge

Da dove nasce l’idea di una serie televisiva incentrata sul mondo della cosiddetta ’new economy’?

Scott Rudin, un produttore, mi aveva chiesto di elaborare un progetto sui giocatori di videogames ma io non conoscevo quel mondo così bene da poterlo rendere in maniera realistica. Allora abbiamo deciso di proporre a Hbo la sceneggiatura di una fiction un pò alla Dallas o Falcon Crest ma che invece del petrolio o del vino fosse ambientata nel mondo dell’high tech. Il fatto di essere stato un ingegnere, devo ammettere, mi ha decisamente aiutato.
Silicon Valley era quindi il postogiusto
Sì, perché se ti interessa popolare un programma di personaggi strambi, Silicon Valley è una specie di miniera d’oro. Ciò che mi affascina è che malgrado i fiumi di denaro che produce, il luogo in se stesso è l’opposto del glamour, appare semmai del tutto anonimo. Voglio dire se vai a Sand Hill road (a Menlo Park, vicino al campus di Stanford, ndr) ci sono dozzine di uffici di venture capital che messi assieme varranno un trilione di dollari e invece ha l’aspetto di una periferia qualunque con ufficetti da 200 mq. E poi ci sono i grandi protagonisti come Steve Jobs, Steve Wozniak, Paul Allen, Zuckerberg, Bill Gates che venti anni fa non sarebbero mai stati, come oggi, le persone più potenti del pianeta. Invece sono ricchi, ma siccome hanno sempre la mentalità dei programmatori sono – diciamo così «socialmente handicappati», non si sono mai troppo relazionati con l’esterno. Molti di loro non hanno una cognizione di come divertirsi veramente, di come spendere i soldi. Sanno che si usa dare grandi feste e ricevimenti ma non sanno cosa voglia dire divertirsi ad un party. Un mondo decisamente bizzarro, composto da persone con cui ho studiato e per un pò anche lavorato, così credo di conoscerli bene. E anche se hanno accumulato enormi ricchezze, costruito attività e si sono lanciati in borsa rispetto a quegli anni, la loro personalità e il loro modo di agire non è poi cambiato molto…

È un luogo – e un ambiente – molto diverso da Hollywood?

Infatti. A Silicon Valley lavorano certamente per accumulare ricchezza così come accade a Hollywood o a Wall Street, ma non hanno la cultura dell’ostentazione. Nessuno gira in Maserati, semmai si costruiscono un veliero, prenotano un volo nello spazio o progettano e poi realizzano un’isola artificiale. È capitalismo ma ammantato da una pretesa benevola, della retorica del ‘miglioreremo il mondo’, ‘con la tecnologia aiuteremo l’umanità’. Forse è a causa della cultura hippie che li ha preceduti in quella zona e che in qualche modo a hanno cooptato, fatto sta che anche se lo pensano nessuno dice mai ‘vogliamo schiacciare la concorrenza’. Semmai è più: ‘Ehi andiamo a Burning Man e costruiamo un mondo migliore. Ah, e poi facciamo anche qualche miliardo’. Sono i titani del tech, miliardari che fanno di tutto per superarsi l’un l’altro, ma a differenza dei capitani di industria più tradizionali, magari si incontrano e sono impacciati come adolescenti. È un paradosso che cerchiamo di rappresentare nel programma: timidi ma senza scrupoli.