Del papa «venuto dalla fine del mondo» fatichiamo ancora a comprendere a pieno la mentalità. Probabilmente, anche perché la storia di quella «periferia» la conosciamo poco. Abbiamo in mente la figure di Perón; la drammatica vicenda dei desaparecidos; l’insurrezione popolare del 2001. È meno noto il ruolo che la Chiesa argentina ha ricoperto durante il XX secolo. La ricostruzione di Loris Zanatta (La nazione cattolica, Laterza, pp. 294, euro 20) ci aiuta a capirne di più. Il dato di partenza è che in Argentina la fede cattolica ha rappresentato una componente fondamentale nella narrazione nazionale. Da quando negli anni Trenta si era spezzato il legame tra liberalismo e democrazia, l’idea di trasformare la società in una comunità coesa e organica ha rappresentato l’obiettivo di tutte le culture politiche che si contrapponevano ai «nemici» del Ser nacional. Anche tra le forze meno connotate dal punto di vista confessionale, il mito della «nazione cattolica» risultava funzionale a questo scopo. Nel 1946 il successo del peronismo, un movimento laico, ma fortemente sincretico, segnava il trionfo del corporativismo coniugato con il populismo sociale. Proprio lo scontro con l’episcopato ne provocava la caduta alla metà del decennio successivo.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, durante i quali «tutti erano teologi e militanti ecclesiali», il conflitto si spostava invece dentro la Chiesa, lacerata dallo scontro tra i settori conservatori e i gruppi guerriglieri (i montoneros, il Movimento dei sacerdoti per il Terzo Mondo, e altre formazioni che si richiamavano alla teologia della rivoluzione).

Il sostegno al Golpe

Di fronte a una società attraversata dalla contestazione studentesca e all’instabilità del potere politico, la «nazione cattolica» si configurava ancora una volta come l’argine di conservazione, compresa quella della Chiesa. Si spiega da questo punto di vista il contributo dato dalla gerarchia per il ritorno al potere del peronismo nel 1973. Anche in questo caso, il governo, considerato dai vertici cattolici come un potenziale «erede secolare» dell’unitarismo religioso, entrerà però rapidamente in contrasto con la Conferenza episcopale. Nel pieno del revival religioso la priorità per i vescovi era ottenere quella pace sociale che Perón si sarebbe mostrato incapace di garantire. Quando nel 1976 il generale Videla prendeva il potere con le forze armate e con il sostegno dei vertici della Chiesa – spiega Zanatta – la «nazione cattolica» si apprestava a vivere una nuova tappa della sua lunga storia: sarà l’ultimo atto.

Le pagine del libro dedicate alla carneficina operata dal regime fino ai primi Ottanta attestano con dovizia di particolari le responsabilità della Chiesa argentina. Viene documentata la speranza che i vertici dell’episcopato riponevano nel cattolico Videla. E poi la disillusione davanti alla brutalità del regime, disillusione alla quale però non seguirà una sconfessione, nonostante le violenze contro il clero. Di fatto, la frattura silenziosa tra Santa Sede, Chiesa argentina e regime militare ha segnato l’implosione della «nazione cattolica», il cui collasso coincideva con il primo significativo rinnovamento post-conciliare dell’episcopato. Con la conferenza di Puebla (1979) Giovanni Paolo II frenava le teologie della liberazione aprendo uno spazio significativo a quella «teologia del popolo» che proprio in Argentina aveva i suoi esponenti più illustri: Juan Carlos Scannone e, soprattutto, Lucio Gera, di cui Bergoglio è stato discepolo.

In sintesi, Gera proponeva di salvare l’idea di «nazione cattolica» slegandola dalla politica e indirizzando la Chiesa verso l’accettazione della pluralità. Della teologia della liberazione voleva mantenere i principii sociali, ma li declinava in chiave spirituale rifiutando la contaminazione con il marxismo. Basta riprendere in mano la prima esortazione apostolica di papa Francesco, per ritrovare la medesima impostazione: centralità della pietà popolare e del popolo come agente di inculturazione.

Sulla «Civiltà Cattolica» Scannone ha scritto che in Bergoglio il conflitto di classe non viene mai teorizzato, ma sarebbe consequenziale al ragionamento complessivo sulla liberazione. Altri interpreti invece hanno definito quella del papa una «teologia populista» che privilegia l’unità (l’«incontro») sul conflitto e richiama gli elementi interclassisti della dottrina sociale romana. Quel che è certo è che il pensiero sociale del papa trova le sue radici nella teologia argentina e nelle vicende di quel Paese di cui il cattolicesimo ha condizionato in maniera decisiva le sorti. Degli anni più bui Bergoglio è stato un «comprimario», in qualità di provinciale della compagnia di Gesù. Sostenitore della «nazione cattolica», ha cercato di contenere le spinte «eterodosse» all’interno della Compagnia, non si è schierato contro il regime, ma ha operato in alcune occasioni a sostegno dei perseguitati. È ancora aperta la polemica sulle sue responsabilità nel caso Jàlics e Yorio: i due gesuiti sequestrati nel 1976 e poi espatriati (Zanatta non vi entra nel dettaglio).

Il rebus da risolvere

Seguendo la prospettiva indicata dal libro, la «teologia del popolo» di papa Francesco può essere considerata la sintesi tra i retaggi del mito della nazione cattolica e il superamento della teologia della liberazione, della quale fa suo lo spirito popolare e pauperista. Lo scarto rispetto all’impostazione ratzingeriana è netto. Il fatto che dietro al discorso di Francesco ci sia ancora una certa tradizione organicistica e che i suoi riferimenti teologici non siano quelli della teologia della liberazione non rende meno significativa la discontinuità pastorale. Ecco allora che, se il rebus dei caratteri del nuovo pontificato rimane ancora in larga parte da risolvere, la storia ci viene in aiuto per comprendere meglio quegli aspetti del discorso papale difficili da spiegare con le categorie del pensiero europeo, anche di quello cattolico: per esempio, la compresenza al suo interno dell’appello alla lotta alle diseguaglianze prodotte dalla finanza e della celebrazione dell’unità popolare e nazionale nella devozione alla Vergine, caratteristica del modello carismatico che fu di Giovanni Paolo II. Questo modo di rielaborare la tradizione teologica argentina di fronte alle sfide del mondo globale, e dopo il tramonto delle «nazioni cattoliche», rappresenta, senza dubbio, uno dei punti di maggiore interesse dell’attuale pontificato.