«Tutti noi, i notabili, noi che ci fregiamo del diritto di giocare a poker al Club Progreso e di tracciare le nostre sigle con pigra vanità in calce ai conti di bevande e pranzi al Plaza. Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa María». L’incipit di Per una tomba senza nome, (Sur, traduzione di Dario Puccini, pp. 116, euro 14,00), suggerisce uno scenario immobile che non ammette discussioni, dove i ruoli e le gerarchie, nel paesone inventato da Onetti, sembrano regole scritte una volta per sempre. Lo sono le classi sociali, le istituzioni che garantiscono l’ordine pubblico e la decenza, insomma i luoghi e i modi in cui i principales esercitano il potere anche all’interno di una narrazione lineare. Ma noi lettori, se abbiamo frequentato almeno uno degli episodi della saga di Santa María, sappiamo che le cose non stanno esattamente così.
Infatti – in questo testo relativamente corto, pubblicato nel 1959, che segue La vita breve del 1950 e precede di pochi anni gli altri due grandi romanzi ambientati a Santa María, Il cantiere e Raccattacadaveri, con i quali Onetti ha raggiunto una fama continentale e poi europea – lo scrittore uruguiano sembra volerci far perdere la bussola disegnando percorsi narrativi complessi ma anche nebulosi. Troveremo diverse voci narranti che mettono continuamente in dubbio le versioni proprie e altrui su fatti che possono apparire decisivi e allo stesso tempo ininfluenti al fine di comprendere qualcosa che somigli a una specie di verità.
In Per una tomba senza nome la voce intorno alla quale si organizzano le altre è quella del dottore Díaz Grey, il medico onnipresente nei romanzi di Onetti, non più giovanissimo, sempre stanco e pessimista, moderato bevitore e accanito fumatore, alquanto annoiato da quella vita provinciale ma in possesso di una pacata saggezza che gli permette di fantasticare e indagare efficacemente sulle vicende locali, grazie anche alla conoscenza degli abitanti facilitata dal proprio mestiere.
Ma non è lui il protagonista della storia che viene raccontata dal giovane rampante Jorge Malabia, e cioè dell’ipotetica vicenda che costituisce materia interpretativa per i personaggi che si muovono un po’ di malavoglia sulla scena calda e polverosa di Santa María, e in cui ritroviamo i luoghi già frequentati in altri romanzi: il bordello, il quartiere povero lungo la riva del fiume, l’albergo con il suo caffè, oltre a una certa piazza davanti alla stazione Constitución di Buenos Aires.
I personaggi di Onetti si fermano per ore a guardare le piazze da una finestra, affacciati a pensieri e visioni abissali. Chissà se Simenon aveva letto Onetti. Come annunciato all’inizio del romanzo, c’è un funerale in paese, al quale partecipano soltanto tre persone: Diaz Gray, il giovane Jorge e un vecchio caprone che col procedere del racconto ne diventerà quasi un protagonista. Il cadavere dal quale ha origine il funerale dovrebbe essere quello di Rita, giovane domestica di casa Malabia, che qualche anno prima se n’era andata nella capitale, portandosi dietro l’allora giovane capro entrato per vie misteriose nella sua vita, per dedicarsi a confusi mestieri, forse mendicante forse prostituta, fino a incontrare non per caso il nostro Jorge, all’epoca studente universitario che finisce per abbandonare gli studi e la pensione pagata dal padre per andare a vivere con lei e il capro in stanze miserabili.
Questa la versione dello stesso Jorge ormai rientrato nei ranghi della sua classe sociale, raccolta e trascritta per noi dal dottore Diaz Grey. Ma a un certo punto ne viene fuori un’altra, anch’essa poco convincente, enunciata da Tito, ex amico e compagno di studi di Jorge, il quale sosterrà qualche tempo dopo, in un incontro casuale con Diaz Grey nel mercato cittadino, che tale storia l’amico l’ha inventata di sana pianta, spiazzando così il dottore, e insieme a lui i lettori, e creando scompiglio nella miglior tradizione della picaresca spagnola medievale.
In effetti, procedendo verso la risoluzione del romanzo ci assillano grandi dubbi sulla consistenza del reale, a cominciare dal personaggio di Rita e dalla stessa città di Santa María, avvolta in un miasma di incertezze molto familiari ai lettori di Onetti, il quale professa la religione del dubbio e dell’ipotetico fino a limiti maniacali. Apparteneva a Rita il corpo chiuso nella modesta cassa, o a una sua cugina malata di tubercolosi? Quali erano state le vere intenzioni di Jorge nei confronti di Rita? Che ruolo avevano giocato i sentimenti o le passioni nei loro rapporti? Paradossalmente è il caprone ad apparire ancorato a una realtà materiale meno discutibile, grazie alle minuziose descrizioni fisiche che ne seguono l’evoluzione fino alla fase in cui si fa decrepito e insopportabilmente fetido. Ma il caprone non rappresenta nulla: per Onetti il registro simbolico non esiste, nemmeno l’invenzione di Santa María pretende di raggiungere questa dimensione, ed dunque inutile tentare interpretazioni che alludano a questa o quella visione della società umana.
Non ci resta che ammettere che alcune deliberate menzogne con cui il dottore Diaz Grey ha cercato sulla carta di restituire ai personaggi coinvolti in questa storia contraddittoria una parvenza di realtà forse non sono bastate. Alla fine anche lui si trova con un pugno di sabbia in mano, la sabbia che immaginiamo invadesse ogni angolo del cimitero quel torrido e desolato pomeriggio a Santa María in cui ha inizio il racconto, ma che è anche il suo finale: «E, più o meno, questo era tutto ciò che avevo in mano dopo le vacanze. Vale a dire, nulla; una confusione senza speranza, un racconto senza un finale possibile, dai significati incerti, smentito dalle stessi elementi di cui disponevo per comporlo. Personalmente avevo precisa nozione solo dell’ultimo capitolo, quello del pomeriggio torrido al cimitero. Ignoravo il senso di ciò che avevo visto, mi ripugnava l’idea di indagare e accertarmi. E quando furono trascorsi abbastanza giorni di riflessione da farmi dubitare persino dell’esistenza del capro, scrissi, in poche notti, questa storia».
Quando i romanzi di Onetti videro la luce tra gli anni cinquanta e sessanta non mancarono di provocare sconcerto tanto nel pubblico quanto nella critica, e quasi subito gli venne imposta l’etichetta di oscuro «esistenzialista», anche perché a leggere le deambulazioni dei vari personaggi nei meandri di Santa María non poteva non venire in mente Albert Camus. Successivamente lo stesso Onetti avrebbe riconosciuto il debito con Faulkner, da cui aveva preso l’idea di inventare una città che in qualche modo servisse allo scopo di concentrare in un luogo unico le ossessioni bonaerensi e montevideane che si portava dentro fin da giovane. Certo, le descrizioni di Santa María corrispondono poco all’idea metropolitana di Arlt o di Sábato o dello stesso Onetti, perché fanno piuttosto pensare a una desolazione tutta latinoamericana, non a quella esotica di palme e macondi, ma alla desolazione dell’anima, in un posto dove fatalmente e grazie a un antefatto letterario, le persone e le cose si fondono in un’unica irrealtà.