Insieme a GianMauro Numico ho scritto “La complessità che cura, un nuovo approccio all’oncologia” (edizioni Dedalo). Un filosofo per la medicina e da un primario oncologo rispondono a diverse domande per esplorare la possibilità, con i mezzi scientifici di cui disponiamo, di accrescere gli effetti della cura del cancro.

In questi ultimi anni, attraverso i media, il cancro è stato abbastanza sdrammatizzato e per certi versi banalizzato. Sembrava bastasse mangiare più verdure e evitare le carni rosse per essere onco-protetti e che i nuovi farmaci avessero la meglio sull’indomita malattia. Ma il cancro resta il cancro …e continua vistosamente a crescere: aumentano gli italiani che ‘vivono’ con il cancro (+17% in cinque anni), cinque anni fa i malati di cancro erano 2 milioni e mezzo, oggi sono più di 3 e 1 malato su 4 è completamente guarito(7° rapporto Favo).

Siccome il cancro continua ad aumentare e la sua guaribilità per quanto in crescita resta bassa acquista importanza strategica la curabilità perché è da questa dipende il grado di sopravvivenza. Per “grado di sopravvivenza” si intende una valutazione clinica qualitativa giustificata con il tempo di vita. Oggi il trattamento dei tumori si avvale di molti approcci e di diversi mezzi ma il principale, resta quello farmacologico (chemioterapia). Alle terapie in genere si accompagnano problemi e tantissimi sono i fattori che ne abbassano il grado di efficacia ottimale.

Fin qui i presupposti del nostro lavoro. E ora le domande: siamo sicuri che il grado di sopravvivenza oggi consentito dai mezzi di cui disponiamo e dagli approcci impersonali delle terapie sia quello massimo sia in termini di qualità che di quantità? E che la sopravvivenza non possa variare con la qualità personale del trattamento e con i modi attraverso i quali esso viene effettuato? Siamo sicuri che il trattamento sia concettualmente riducibile solo all’impiego di mezzi terapeutici? Siamo sicuri che il modo corrente di intendere la terapia sia quello più efficace? Se la sopravvivenza dipende dalla cura e se questa non dipende solo dai mezzi di cui dispone ma anche dai modi come viene fatta…allora.. quale sopravvivenza sarebbe possibile se i modi della cura fossero più adeguati alle complessità del malato di cancro?

Il nostro studio ritiene possibile accrescere, a fronte delle terapie disponibili, il grado di sopravvivenza attraverso un ripensamento del modo di intendere la terapia. Considerando la complessità del malato di cancro una risorsa da usare, parlando di cura e non solo di terapia. E’ necessario rammentare che la medicina oncologica, come del resto tutta la medicina di matrice positivista, è soprattutto impersonale cioè orientata all’oggettività biologica della malattia. Il libro vuole risolvere il problema dell’impersonalità, aprendo la strada ad una specie più avanzata di clinica nella quale alla conoscenza oncologica della malattia si aggiungono quelle del malato quindi conoscenze ontologiche, relazionali, linguistiche, situazionali, cognitive, logiche. Quella che nel libro è definita “onto-oncologia”.

Gianni Bonadonna il vero grande maitre a pensér dell’oncologia italiana, è autore del trattato di oncologia più studiato, ma è anche colui che quale malato ha scritto libri con i quali dimostra che il suo trattato, nei confronti della complessità del malato, resta inadeguato…ma senza mai come malato ripensare l’oncologo e senza mai come oncologo ripensare il malato. Non è vero che la conoscenza in medicina dev’essere per forza impersonale, al contrario essa per essere davvero tale deve diventare conoscenza bio-onto-biografica.

Per un oncologo questo è possibile accettando di misurarsi con un livello più alto di complessità : il tumore non è solo una complicazione biologica di un qualche organo del corpo, ma è anche il malato nella sua interezza e l’oncologo che lo cura.

Questa complessità nonostante gli sforzi compiuti dall’oncologia nella cura del cancro non c’è, nel senso che non è prevista, in nessun protocollo terapeutico, e meno che mai nella formazione di un oncologo o di un infermiere…perché sino ad ora è stata vista come non scienza, mentre a saperla usare essa può addirittura migliorare gli esiti dei trattamenti disponibili fino a migliorare il grado di sopravvivenza del malato.

Se si va oltre i tanti luoghi comuni sull’umanizzazione e oltre lo standard view dell’idea di terapia la parola chiave è: relazione di cura. Non si tratta di un problema di amabilità, di buone maniere, di rispetto. E’ un altro modo di conoscere la malattia, cioè è un altro genere di clinica. La relazione tra persone è complessità e se la complessità cura allora la relazione è una possibilità di cura in più. Quindi un possibile grado maggiore di sopravvivenza.

Ecco perché un filosofo e un oncologo hanno deciso di scrivere questo libro.