Esiste un nuovo cinema italiano? È in atto una sua reinvenzione? Una sorta di rifondazione che attinge alle radici ancora vitali del neorealismo? Che ridefinisce con sguardo poetico-politico, e spesso visionario, il cosiddetto reale? Un punto di osservazione è sempre stato, oltralpe e da decenni, il Festival «Cinéma Italien» di Annecy. E nell’edizione appena conclusa lo è con ancor più forza. Si tratta di reinvenzione anche per questo festival che, con la nuova direzione artistica di Francesco Giai Via (nello splendido complesso polivalente del Centro Culturale di Bonlieu e in una disseminazione anche nella deliziosa città vecchia,come nel decentramento delle sale limitrofe) assume un senso rinnovato in cui si privilegia l’idea di «cantiere», con una attenzione alle tendenze e agli autori che stanno perseguendo una sorta di «rifondazione» del nostro cinema. Intanto a partire dalle due «retrospettive» dedicate a due giovani autori «non riconciliati» del nostro cinema, due esempi di cinema poetico-politico, oltre che di declinazione antropologica e filosofica delle immagini: Stefano Savona e Fabrizio Ferraro, in un omaggio sotto il titolo rosselliniano di «Viaggio in Italia». Di Savona ad Annecy si è vista la prima retrospettiva completa ( compreso Samouni road, premiato a Cannes e in uscita italiana in questi giorni) e di Ferraro esempi del suo percorso nelle utopie concrete del Novecento, da Simone Weil a Walter Benjamin. Non a caso entrambi i cineasti hanno stabilito un rapporto intenso con Parigi ( Savona ci vive e Ferraro vi ha girato diversi film), e non a caso sono campioni di un cinema italiano-apolide che liberamente si muove sia nei territori di maggiore incandescenza politica (la Palestina, il Kurdistan, l’Egitto per Savona) che nel paesaggio europeo problematico e «sospeso», che anacronicamente solca passato e presente ( il «passaggio della linea delle immagini» per Ferraro). Ad Annecy sono stati protagonisti di due affollati «atelier» per dar conto del proprio lavoro che ne ha restituito «in atto» il processo creativo. Proprio questo fervore creativo e lo scambio tra autori, gli incontri continui con il pubblico prima delle proiezioni, hanno caratterizzato l’atmosfera stimolante del festival. Un osservatorio in fieri e insieme un «campo» dove sono emerse le linee di tendenza di un possibile e necessario nuovo cinema italiano che passa ( come ormai si vede da più parti) per una «reinvenzione» del reale, che non sia né restituzione mimetica, né mera «documentazione« militante, ma che accompagna ciò che sembra essere il romanzo del reale (come faceva il cinema di Rossellini), cioè la fertilità inventiva, straordinaria, spesso visionaria, che va enucleata dalla stessa drammaturgia insita nel reale. Dai premi del Concorso sembrano leggibili direzioni, complementari, che ritornano nel cinema italiano contemporaneo. Menocchio di Alberto Fasulo ripercorre in un villaggio friulano del XVI secolo le radici della coercizione delle coscienze da parte dei poteri statali con uno sguardo «dal presente» rappresentativo del nesso Storia-Utopia-Natura che emerge da più parti, come nel cinema di Martone (nella sezione Prima c’era l’ «avant-prèmiere» francese del suo Capri-Revolution ). Beatiful things di Giorgio Ferrero e Federico Biasin è un film-sinfonia, un «palinsesto» sia del Novecento (con riverberi nel lavoro sul suono e sul colore dell’arte di Tapiès o di Pistoletto, come della «ritmica» di Ruttmann) sia del primato degli «oggetti» della contemporaneità, in una osservazione globalizzante di quattro solitudini in quattro punti diversi del mondo. La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo è un ritratto durissimo e tenero di adolescenze «perdute» di periferia che fa pensare alla compassione fervida di un Olmi. Due film che rappresentano ulteriori strade del nostro cinema. Il racconto del paesaggio e la ripresa del modello di «pedinamento» zavattiniano della nostra tradizione. Paesaggio umano e naturale e accensione visionaria nel corpo a corpo con personaggi-intercessori come in altri film visti ad Annecy: quelli di Alice Rohrwacher (che ha ricevuto il Premio Sergio Leone); Lorello e Brunello, ritratto «lucreziano» di esistenze nella campagna toscana, di Iacopo Quadri (che ha tenuto anche un atelier di montaggio); Non può essere sempre estate di Margherita Panizon e Sabrina Iannucci, sulle dinamiche adolescenziali scatenate da un laboratorio teatrale nell’hinterland napoletano; Io sono Valentina Nappi di Monica Strambini , vitalissimo ritratto di donna, in cui si scatena in presa diretta la sessualità di una giovane attrice di porno. Lo «stato delle cose» del nuovo cinema italiano diventa, come si è visto ad Annecy, «stato dei luoghi», dei corpi e delle anime, da cui si sprigiona, pasolinianamente, «una disperata vitalità».