Quando Frigerio e Greganti erano più giovani di 20 anni, sulla spinta dell’indignazione dell’opinione pubblica furono ricostruite le regole giuridiche per gli appalti. La legge approvata nel 1994 che prese il nome dall’allora ministro Merloni era un provvedimento rigoroso e si trattava solo di sperimentarla e –semmai- migliorarla. Si scelse la strada opposta. Fu subito accusata di rigidità e fu variata, emendata e stravolta: oggi siamo alla sua quarta stesura. A svincolare dalla legge l’aggiudicazione dei grandi appalti ci pensò il secondo governo Berlusconi.

Approvando nel 2001 la «legge obiettivo» che con il convinto sostegno del mondo delle maggiori imprese forniva semplificazioni per i grandi appalti. Ancora peggio fecero nel 2002 i decreti attuativi e fu possibile così sperimentare la macchina della Protezione civile di Guido Bertolaso. Tutti i grandi appalti venivano aggiudicati con un sistema palesemente discrezionale: lo scandalo che seguì aveva dunque radici salde nella mancanza di regole.

Ma anche il settore degli appalti minori è rimasto indenne. Da anni i comuni italiani possono appaltare a trattativa semplificata – senza una vera gara di evidenza pubblica – lavori di importo fino a 500 mila euro. Nel 2011, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, Avpc, denunciava inascoltata che il 28% degli appalti pubblici per un valore di 28 miliardi veniva appaltato senza gara. I grandi lavori hanno beneficiato di un terreno legislativo speciale mentre quelli minori sono stati lasciati nella discrezionalità.

Come meravigliarsi dunque dell’esplodere dell’ennesimo scandalo? Le radici stanno nell’assenza di regole: la politica affaristica tiene sotto controllo le imprese e le ruberie sono all’ordine del giorno, come denunciano la Corte dei Conti e la Trasparency International. Ha dunque ragione Livio Pepino che sulle pagine del manifesto di ieri affermava che «non siamo di fronte ad una corruzione nel sistema ma ad una ben più grave corruzione del sistema».

La vera tragedia che stiamo vivendo sta però nel differente atteggiamento del legislatore e dei mezzi di comunicazione. Se vent’anni fa ci fu un innegabile scatto di dignità istituzionale, oggi siamo dentro ad un inaudito attacco alla «burocrazia» rea di ogni colpa.

Due giorni fa a Milano a discutere del futuro di Expo 2015 c’era il ministro per le infrastrutture Maurizio Lupi. Non è soltanto la presenza del suo nome nelle intercettazioni della cricca dell’Expo a suscitare preoccupazione (come noto egli ha smentito ogni legame con i detenuti) quanto un gravissimo annuncio reso pubblico nell’audizione da lui tenuta l’11 marzo scorso presso la commissione ambiente della Camera dei Deputati. In quella sede ha infatti espresso il parere di sciogliere l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici e riportare tutte le competenze presso il ministero da lui diretto.

L’attacco è stato motivato dalla necessità di «snellire e sburocratizzare». La realtà è diversa. L’Avcp – che pure ha un dirigente coinvolto nell’affare Expo e non è immune da critiche- aveva negli anni scorsi denunciato alla Magistratura inquirente molti appalti sospetti. I casi più clamorosi hanno riguardato l’appalto per la sede dell’Agenzia spaziale italiana (l’ex presidente Saggese è in carcere per tangenti) e l’ispezione compiuta sull’appalto della Pedemontana lombarda, opera tanto cara al sistema di potere smascherato dall’inchiesta Expo. Troppo per i nostri liberisti. Così, forse anche per la presenza presso il suo ministero in qualità di Capo di Gabinetto di Giacomo Aiello che era stato capo dell’ufficio legislativo della Protezione civile di Bertolaso, Lupi vuole sciogliere quell’organismo indipendente.

La drammatica crisi di legalità che viviamo deriva dalla mancanza di organismi terzi indipendenti dalla politica e autorevoli sotto il profilo morale, delle competenze e della libertà di movimento. E invece il governo persegue la demolizione del residuo di legalità e di senso dello Stato che ancora non è stata spazzata via dal ventennio berlusconiano. Oltre a Lupi, anche il primo ministro Renzi sembra ossessionato dalla volontà di demolire quanto resta delle funzioni pubbliche, dalle Soprintendenze fino alla Magistratura.
L’immagine dell’Italia infranta dell’Expo 2015 non si salva solo con la presenza di uomini del livello di Raffaele Cantone. Si recupera riscrivendo regole rigorose per gli appalti pubblici e restituendo dignità e autonomia alle funzioni pubbliche mortificate da venti anni. Nella migliore storia degli appalti pubblici – che pure esiste – c’è sempre stata una tensione culturale nel perseguire un futuro migliore. A furia di semplificare e di affrettarsi senza senso si consegna definitivamente il paese allo strapotere del peggiore affarismo politico e imprenditoriale.