E se in questo oggi, tornato a essere ancora meno accogliente per le donne, una ragazzina del ventunesimo secolo, avesse non solo una stanza ma un intero borgo tutto per sé? Unica adolescente in una comunità di adulti di sole undici persone, stanziate in un paesino tra i meandri dell’Appennino tosco-emiliano, Gregoria da sempre ha respirato montagne e cielo, boschi e farfalle, il linguaggio del vento, i rintocchi dei versi degli uccelli.

In questo suo vissuto si è imbattuto Francesco Fei e ha sentito che lì voleva fermarsi, a Casetta di Tiara (Comune di Palazzuolo sul Senio, luogo tra l’altro impregnato dell’amore tra Sibilla Aleramo e Dino Campana), a colloquio con questa ragazzina, con i suoi genitori e con i pochi anziani rimasti. Innanzi a loro l’ultimo anno delle medie di Gregoria, ultimo tempo prima di staccarsi, per ragioni pratiche legate al luogo del liceo, da quell’universo che oltretutto senza di lei rischia di estinguersi.

La tv lontana parla di ragazze che vogliono essere “principesse” e avere fidanzati “palestrati”, mentre fuori “il silenzio è cosa viva”, c’è una vita a raccogliere more e castagne, a giocare coi cani, lucertole, rane, a rotolarsi nella neve, a dare un bacio alla tomba della nonna, a chiacchierare del futuro con le amiche e a farsi le foto dove la cascata tornerà a scrosciare. Eppure La Regina di Casetta, questo il titolo del documentario, avverte il senso di costrizione che si annida nel suo bellissimo regno.

Di questo e di una spericolata corsa di Gregoria a guida di un’ape, tra i fari che illuminano il suo volto in cerca di autonomia e futuro, abbiamo dialogato con Francesco Fei, vincitore del Concorso italiano al Festival dei Popoli e oggi al Sudestival di Michele Suma a Monopoli.

Come sei venuto a sapere di questo posto?

É stato mio padre a farmelo conoscere. Aveva letto un articolo che raccontava di questo paese ed era rimasto colpito dal fatto che fosse il luogo della storia d’amore tra Campana e Aleramo; dal suo essere isolato e silenzioso, ma al tempo stesso accompagnato dal risuonare delle cave di pietra serena, e infine dal suo aver conservato un dialetto unico, il casentino, di origini bizantine.

Come è avvenuto l’incontro con Gregoria?

Al ristorante dei suoi. Subito mi ha incuriosito vedere una bambina in una comunità di undici persone. Le ho chiesto se le piacesse vivere là e mi ha risposto di sì, anche se mi ha raccontato che al momento del suo ingresso al liceo sarebbero stati costretti a trasferirsi.

E poi, quando hai cominciato a pensare all’idea di un documentario?

In realtà fin da quel primo incontro. Ho visto la possibilità di fare un lavoro sì di osservazione, ma con un inizio e una fine, l’ultimo anno delle medie, in cui la partenza di Gregoria avrebbe potuto significare non solo la perdita di tutto quello in cui era vissuta, ma anche la fine di quel mondo stesso. Avevo davanti, come un regalo, una drammaturgia ben definita.

Come si è dipanata la relazione con i genitori?

Andavo a trovarli – ovviamente senza camera – facevo passeggiate con Gregoria e suo padre. É nata come un’amicizia, oggi ci si sente tutti i mesi. Sapevano che ero un regista e quando gli ho confidato il mio desiderio, si sono subito aperti. Forse è stato il fatto che fossi fiorentino. Poi probabilmente gli sono sembrata una persona onesta, e in sintonia con la bambina. Non ho trovato quelle difficoltà che immagini in una comunità che ti respinge. A Casetta le case sono vuote, i proprietari non affittano; loro, invece, per un piccolo compenso, mi hanno ospitato in una mansarda sopra il ristorante.

E con lei? Come si è sviluppato il rapporto?

Incredibile: siamo entrati in risonanza fin dalla prima passeggiata insieme. Tanto che quando ho cominciato a girare già non guardava in macchina. Fin dall’inizio avevo deciso che sarei stato solo con il fonico perché per rapportarti a una realtà così delicata, devi essere leggerissimo. A darle fastidio era solo il boom per il suono, su cui faceva battute, tanto che a volte ho lavorato senza. Da parte mia, sapevo di avere un anno davanti, così non le chiedevo nulla e stavo in attesa dei suoi tempi.

Che cosa ti ha trasmesso? Sei abituato a interagire con gli adolescenti?

Durante la realizzazione sono diventato padre per la prima volta e insegno regia a ragazzi più grandi. Questa fascia mi manca. Della vicinanza con Gregoria mi ha sorpreso scoprire che il suo mondo infantile si era mantenuto quasi intatto. Parlava con gli animali, con i suoi antenati, con la nonna morta già da tre anni, ne indossava le pantofole. Poi, nei mesi, l’ho vista cambiare, “corrompersi”. Un momento decisivo è stato quello in cui le hanno regalato l’ape.

Eppure quella scena è magnifica, perché rappresenta per lei la libertà di entrare e uscire in autonomia dal suo “regno”.

Sì, infatti ci ho insistito molto. Per tanti anni lei questa costrizione non l’ha sentita. Mi aveva detto che i suoi amici andavano volentieri da lei, perché si sentivano liberi. Crescendo, sono emerse anche altre percezioni. Così l’ape è stata una svolta prima dei diciotto anni. Oltretutto quella del passo della Futa (dove c’è anche il cimitero dei nemici, i caduti tedeschi), è una strada pericolosa, farla in macchina a me metteva ansia. Ma Gregoria non aveva paura né dei cinghiali né dei lupi.

Sul cartello stradale a Casetta c’è scritto “Il poeta Dino Campana e la compagna Sibilla Aleramo”… Non “la poetessa”. Penso al titolo del film e alla possibilità per Gregoria di acquisire un’autonomia diversa. Di essere padrona di sé. Per te era cruciale fosse una ragazza?

Per la targa, è vero, e pensare che lei era più importante di lui. E che percorso di emancipazione… Da parte mia volevo raccontare una adolescente in una posizione pressoché unica. Doveva essere una ragazza. Non so perché, ma so che la protagonista del mio primo film Onde era una ragazza con una voglia sul viso. E che al centro del mio prossimo film, Wonder when you’ll miss me, da un romanzo di Amanda Davis, c’è una ragazzina bullizzata che sceglie la fuga on the road con un’amica in sovrappeso.

Chi legge in voce over le poesie di Campana? Una voce dolcissima e struggente.

É la figlia di Claudio Bonafede, il montatore, si chiama Flora. Un’altra adolescente. Ha letto una sola volta mentre suo padre registrava con l’iPhone. Però sua madre, che è una doppiatrice, l’aveva preparata. É una ragazzina abituata a quel mondo, ama Fellini, il teatro. Certo, però poi sta quasi tutto il tempo sul telefonino. Nel film che ho appena girato, alla protagonista l’abbiamo fatto buttare poco prima della fuga. A meno che non ti inventi qualcosa di incredibile, drammaturgicamente sono noiosi.