Ulteriore visione, sorpresa nella vetrina luccicante delle piattaforme, che esalta concentricamente la possibilità, anzi la necessità, della visione, il riprodursi alchemico, partenogenetico delle immagini, delle forme, dentro lo schermo, dentro l’ampio schermo oculare di Anya Taylor-Joy. Gli stessi occhi sgranati che avevano ipnotizzato la bestia in Split ora si spalancano a immaginare, a quel vedere attraverso e oltre che è l’immaginazione, il visibilio.

ALLORA l’intelligenza di Elisabeth Harmon che davanti a una scacchiera compone combinazioni, incastri a orologeria, arrocchi claustrobofici, è un’intelligenza eidetica, che cioè si sgrana nella misura delle immagini e mostra in forme, sagome, contorni il concetto, l’idea, qualcosa come un neoplatonismo trasposto in epoca postmoderna. Occhi magnetici, fascino traspirante da ogni movenza del suo corpo, come un fruscio d’odori, di vesti, cappotti, quelli di Beth, regina intorno a cui ruotano, e per certi versi cadono, pedine, alfieri, tutto uno stuolo maschile (a tratti mascolino, inetto) in fila sulla scacchiera del mondo, tant’è che si ha l’impressione che i sette episodi della serie siano l’evoluzione, la versione antropomorfa di una partita giocata in un sottoscala, tra le carabattole, le secchie rugginose, l’odore rancido d’ombra, la polvere che i cassini respirano, o che sia il sogno di una bambina morta in un incidente stradale o quello di una ragazza collassata sul pavimento per eccesso d’alcol e barbiturici.

È La regina degli scacchi, disponibile in questi giorni su Netflix, serie diretta da Scott Frank e tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tevis (1983), sgargiante di un déco uscito dagli anni Sessanta, di una saturazione, contorsione di tinte, e una colonna sonora variopinta che va dalla prima Gnossienne di Satie, fluida e triste come una sbornia in solitaria, alla psichedelia andante, svisante di Somewhere I Belong di Gabor Szabo, fino agli Shocking Blu, quando dalla lente concava del televisore Venus scandisce il ballo di Beth con la filigrana della tastiera in sottofondo, in tutto simile a quella dei tendaggi, delle tappezzerie, proprio della luce che entra vistosa ed ebbra dalle finestre. Tutto un contesto, connaturato alle decorazioni di quegli anni, che in modo addirittura stordente richiama la griglia della scacchiera e, dal punto di vista dei riferimenti, degli archetipi cinematografici, gli esperimenti di Ruttmann o Egelling, calati in ambiente pop, come mostrano i titoli di coda dell’ultimo episodio, quasi in estasi da Diagonal Symphonie.

Carte da parati a intersezioni perpendicolari di rette su sfondo beige, o a quadri concentrici, smaglianti; motivi romboidali dei tappeti o dei pavimenti; stoffe sciorinanti ovoidi, torsioni di linee o cerchi saturi fino a confluire in mandala a foglia larga, arabeschi d’oro, d’oriente, derivati da cose come Tomorrow Never Knows, ciò a complicare, problematizzare l’unità di misura della linea, il codice geometrico, matematico alla base di questo ecosistema.

A PROBLEMATIZZARLO cioè nel senso di una liberazione della linea, del numero, che diviene voluta, contorsione, efflorescenza psichedelica: sono le infinite possibilità di vita che possono sorgere dalle combinazioni logiche di un gioco (gli scacchi), della simulazione, dall’invenzione (di vita) condotta attraverso l’intelligenza eidetica, la capacità di vedere oltre le cose, fissando come in trance il soffitto, divaricare gli occhi dentro il tessuto delle cose, dilatarle per trovare pura bruciante sostanza, per scorgerne il loro al-di-là.

Beth gioca alla vita stando in equilibrio su questo filo, su questa linea pronta a incresparsi, diramarsi in caselle ora bianche ora nere, su cui incombe l’ombra di un orfanotrofio, di camerate i cui letti si dispongono a scacchi, del ripostiglio in cui giace una scacchiera, sintesi e risultante di tutti quei sintomi, quei segni a quadri di cui è fatta la realtà del suo sguardo. Beth Harmon si gioca la vita, il suo sogno di bambina spirata, spiritata, mossa dall’ispirazione e da un senso di autodistruzione che è tutt’uno con il talento.

GIOCA partendo da una condizione di totale marginalità, già ispirata e insidiata da sostanze psicotrope, e finendo al centro della questione femminile, al centro di un salotto borghese straripante di tendaggi satinati, sofà, sorde moquette, dove fare esperienza della solitudine, del silenzio slavato punteggiato da Satie e dal lenimento dell’alcol: l’attonita frustrazione della donna americana nel secondo dopoguerra, assoggettata alla figura del marito anaffettivo, ignavo, commesso viaggiatore, e soprattutto al sogno di un amore. La meta è improbabile, irreale: forse è un sogno, un al-di-là sorto tra le linee di una partita a scacchi che non si sa bene chi sta giocando, negli antri di una struttura a embricatura di cellule, o nei raccordi, nelle dissolvenze di un lampo che rutila in vaste orbite.