La storiografia francese ha individuato nel cattolicesimo un elemento centrale nella declinazione della Prima guerra mondiale come «crociata». In Riti di guerra. Religione e politica nell’Europa della Grande Guerra (Il Mulino, pp. 264, euro 24) Sante Lesti prende le mosse dalla lezione di Audoin-Rouzeau e Becker e focalizza l’attenzione sulle pratiche di consacrazione della patria al Sacro Cuore di Gesù.
Si tratta di una devozione d’origine seicentesca, figlia di una tradizione che vuole nel cuore di Cristo il luogo d’incontro tra il bisogno del potere temporale di una legittimazione religiosa e il sogno ecclesiastico di una restaurazione cristiana della società. Dalla Rivoluzione francese in avanti il culto ha assunto anche un carattere anti-illuministico, che solamente nella seconda metà del XIX secolo è stato parzialmente rimodulato accantonando l’insistenza sulla sovranità monarchica. Con lo scoppio della Grande Guerra – spiega Lesti – il Sacro Cuore fa il suo ingresso nell’età contemporanea, ma senza perdere la funzione originaria di sigillo del patto tra Dio e la patria: agli occhi di milioni di cattolici unica e incrollabile garanzia della vittoria. La consacrazione della Francia è il caso di studio più interessante. Nella repubblica ancora fresca della legge di separazione, l’Union sacrée della Chiesa con la nazione avviene nel giugno 1915 dietro l’incessante campagna dei giornalisti della «Croix».
Questi interpretano i discorsi del presidente Poincaré sulla France éternelle come un’apertura alla richiesta del clero di invertire la politica in materia di religione. Tuttavia, malgrado la mobilitazione della gerarchia, i vertici politici decidono di non presenziare al rito. Nonostante sia stata una figlia della Francia, Margherita Maria, a ricevere la missione di promuovere il Sacro Cuore, anche altri episcopati europei si appropriano del culto alimentando la convinzione popolare di avere Dio dalla propria parte. Molto è stato scritto sulle contraddizioni generate nella Chiesa da queste nazionalizzazioni della fede. Lesti spiega come un trait-d’union si possa rintracciare nell’opposizione ai principi dell’Ottantanove, una sorta di continuazione della battaglia anti-moderna che vede in prima linea anche esponenti del cattolicesimo italiano.
Qui è il gruppo gravitante attorno alla rivista «Vita e pensiero» – Armida Barelli e soprattutto padre Agostino Gemelli – a farsi promotore dell’iniziativa cultuale. In Italia la riconciliazione è ancora lontana, ma i «medievalisti» di Milano sanno di poter contare sulla rete dei cappellani militari di mons. Bartolomasi e intendono ottenere il beneplacito del governo liberale. Alla prova dei fatti, malgrado l’onda lunga della mobilitazione interventista, alla consacrazione del Regio esercito nel gennaio 1917 seguirà il divieto del Ministero della guerra di apporre sulla divisa dei consacrati il segno del cuore di Gesù. Non ci sarà neppure il sostegno esplicito di Benedetto XV alla successiva e coordinata celebrazione delle nazioni alleate, una reticenza sintomatica non solamente della volontà del papa di non schierarsi con l’Intesa, ma anche dei dubbi della Santa Sede verso il rito stesso. Oggi, scrive Lesti, di questa dottrina della regalità di Cristo non c’è quasi più traccia nella memoria degli europei, eppure l’incontro-scontro tra le due fedi, quella patriottica e quella religiosa, ha lacerato profondamente la società dell’epoca e la coscienza dei fedeli.
Nel Sacro Cuore il voto religioso si è fuso con il giuramento politico in una prospettiva di risemantizzazione del discorso bellico che manifesta un’evidente aspirazione egemonica dei cattolici. Dall’altra parte, il potere politico ha giocato di sponda con questo disegno per mobilitare gli animi, ma senza aderire alla proposta politico-culturale degli episcopati. Proprio dal punto di vista culturale, il rito è quindi rivelatore delle differenti strategie giocate sul campo dell’idea di nazione e apre nuove prospettive per un’interpretazione della Grande Guerra nella storia europea.