Una delle caratteristiche della prosa serrata di Daniele Mencarelli, è una presa ossessiva e innervata sugli avvenimenti, raccontati attraverso una lingua scarna ed espressiva, ma vitale nei molti dialoghi, con innesti del parlato in romanesco per un maggiore effetto di realtà. Una fedeltà al reale di una ritmica narrativa che non si concede mai pause o divagazioni ma resta incatenata alle dinamiche dei fatti nel presente di una quotidianità in grigio, senza dare tregua.

QUESTO AVVIENE sia nel notevole libro d’esordio, La casa degli sguardi, dove racconta la sua discesa agli inferi nell’alcolismo, la dipendenza, prima della redenzione, che in Tutto chiede salvezza (pp. 204, euro 19), sempre edito da Mondadori, antefatto e uno dei capitoli di un grande romanzo autobiografico che incrocia anche la storia di una generazione d’invisibili, schiacciati tra integrazione consumistica e ribellione comportamentale. L’io narrante, il quale coincide con l’autore, accetta la sfida più forte, che è quella tra letteratura e vita, in lui come in pochi autori di oggi corporale e necessaria, spinta dentro le segrete della verità.

L’autore ha vent’anni e dopo una colluttazione rabbiosa con suo padre e una crisi di nervi finisce in un reparto psichiatrico, su di lui l’onta e la minaccia di un Tso, i rimorsi, l’incontro con un gruppo di psichiatrici nel microcosmo del reparto neuro, la «selva d’occhi» che lo attende al suo arrivo, in una sorta di teatro da camera dove va in scena il dramma silenzioso degli ultimi, che avviene lungo l’arco temporale di una settimana di giugno nella calda estate del 1994, quella dei mondiali di calcio.

I matti che Daniele Mencarelli incontra, racconta e mette in scena, sono Giorgio, rimasto presto orfano che si procura dei tagli sulla pelle, Gianluca, un quarantenne omosessuale dalle unghie smaltate, bipolare, Alessandro, Madonnina, che recita come un mantra una litania salvifica, «Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia!», tutti nati in ambienti popolari e sottoproletari, diversi da Mario, «un maestro elementare prima d’ammattisse», colto, al contrario degli altri, che anche per questioni anagrafiche e di formazione parla una lingua diversa, più problematica e profonda, che consiglia all’autore di leggere Rimbaud.

LUI VEDE SEMPRE un uccellino dalla sua finestra, e gli confessa che «gli uomini quando non possono proteggere iniziano a distruggere». Sfocati, comunque in secondo piano, gli infermieri e i medici, gli psichiatri svogliati che trasformano le sedute in interrogatori, parlando continuamente di farmaci.

L’iperrealismo di Mencarelli trova la sua rappresentazione in tetre camerate, stanzoni asfissianti, letti dalle lenzuola stropicciate, tra gli odori nauseabondi di orina e sudore, nel reparto diviso rigidamente in due spazi che separano i buoni, dove si trovano lui e i suoi malcapitati compagni, dai cattivi, come due gironi danteschi, dove tutto è stilisticamente connotato come qualcosa di fisico, sensoriale, corporale, e il tempo della clausura diventa irreale, «i minuti sono lunghissimi, passa un secolo per arrivare all’imbrunire».

Un altro innesto che Mencarelli fa nella sua prosa scarna ed espressiva è quello di ibridarla con quella «poesia onesta» che arriva da Saba, Penna e Bellezza, che lui porta nella sua (ha alle spalle una storia ventennale di poeta, l’ultimo libro Tempo circolare, Pequod) e qui diventa impennata lirica, epifania, visione, quel creaturale che rompe la patina del reale con delle improvvise illuminazioni «ogni tanto provenienti da altre stanze, altri mondi, grida, lamenti da straziare la roccia».

NELL’ESTATE in cui la nazionale italiana perde la finale con il Brasile ai rigori, quando il giovane Roberto Baggio calcia la palla verso il cielo, Daniele Mencarelli vive la sua storia e il suo romanzo di formazione senza lieto fine, invocando la salvezza «per i pazzi, di tutti i tempi, ingoiati nei manicomi della storia», lieto fine che purtroppo resta solo nel titolo. L’unica redenzione semmai è nella poesia che scrive per la madre, la sola che riesce ad affievolire il suo calvario di ragazzo ribelle «passato dai banchi/a questo bianco lettino».