Sono passati cento anni da quando, il 14 novembre 1913, vide la luce, pubblicato dall’editore Grasset, Du côté de chez Swann. Due giorni prima, sull’edizione serale di «Le Temps», Proust aveva concesso a Elie-Joseph Bois una intervista in cui cercava di mettere sulla giusta strada gli eventuali lettori del suo libro con una segnaletica economica, ma molto precisa e ancora oggi illuminante.
Proust comincia con il sottolineare che il libro è la prima parte di un’opera molto più ampia che si intitolerà A la recherche du temps perdu dove si incontreranno numerosissimi personaggi di cui verrà seguita l’evoluzione perché il romanzo è non solo «psicologia piana» ma «psicologia nel tempo». Vale a dire che ogni personaggio, modificandosi nel corso degli anni, potrà apparire radicalmente diverso da quello con cui i lettori faranno conoscenza nel primo volume. Non solo: di volta in volta verranno a galla «impressioni profonde, quasi inconsce» a tal punto che il libro, una volta portato a termine, potrà apparire come una serie di «Romanzi dell’Inconscio.» Non tuttavia, come qualcuno potrebbe essere indotto a pensare, di «romanzi bergsoniani.» Proust – dichiara – non avrebbe nessuna reticenza ad ammetterlo se fosse vero, ma c’è un punto cruciale che rende improponibile qualsiasi accostamento: la distinzione tra memoria volontaria e memoria involontaria che «non solo manca, ma è contraddetta dalla filosofia di Bergson.»

Già nel primo volume i lettori vedranno «il personaggio che racconta, che dice ‘Io’ (e non è me) ritrovare di colpo anni, sensazioni e individui che sembravano perduti per sempre in una tazza di tè.» Soltanto la memoria involontaria, l’unica da cui uno scrittore dovrebbe attingere «la materia prima della sua opera», è in grado di restituirci un simile perfetto amalgama di ricordi e di oblio quando un frammento del passato viene attirato da qualcosa di identico nel presente, quando lo choc improvviso lacera il velo dell’abitudine e ci restituisce, nel suo incontaminato splendore, quello che un tempo abbiamo vissuto. Scrivo, aggiunge Proust, solo quanto ho ritrovato in me stesso e sono riuscito a illuminare con un lungo e paziente lavoro: non è questione di sottigliezze, ma di realtà conquistate l’una dopo l’altra e destinate a lasciare la loro inconfondibile impronta sullo stile, che non è qualcosa di semplicemente decorativo e neppure una questione di tecnica, come credono alcuni, ma è «una qualità della visione, la rivelazione dell’universo particolare che è in noi e che gli altri non vedono.»

Ho insistito su questa intervista perché, sia pure in forma meno articolata, cose simili Proust non si stanca di ripeterle anche in successive occasioni e nelle lettere che, tra la fine del 1913 e il 1914, indirizza ai suoi corrispondenti a cui cerca di fornire puntuali e discrete istruzioni per l’uso. Con scarso successo, a giudicare dalle risposte talvolta esilaranti come quella di Madame Gaston de Caillavet che lo complimenta per avere parlato in «modo fervido e disilluso» della prima comunione: sono tanto stanco, risponde Proust con magnifica ironia, che forse sono io che non ricordo di averlo fatto, e tuttavia «felix culpa perché mi vale l’evocazione dei ricordi della vostra prima comunione.» Ma anche i lettori di professione, i critici letterari, se non incorrono in così plateali infortuni, non mostrano in molti casi di avere letto con maggiore attenzione e tantomeno di avere tenuto conto delle segnalazioni di itinerario fornite da Proust. Alcuni di loro proclamano di essersi annoiati a tal punto da avere abbandonato il libro dopo una trentina di pagine; altri ci forniscono letture meno impudenti e più impegnate in cui, accanto a qualche marginale riconoscimento, accumulano le riserve o anche le critiche più astiose.

Per averne un’idea basterà soffermarsi rapidamente sull’articolo di Henri Ghéon che comparve sulla «Nouvelle Revue Française» del 1° gennaio 1914, dieci giorni prima che Gide scrivesse a Proust la famosa ritrattazione: «il rifiuto di un simile libro resterà il più grave errore della N.R.F. [E]io ho la vergogna di esserne in buona parte responsabile.» Data la sede e data la notorietà del recensore, fu forse la stroncatura che costò a Proust la maggiore amarezza. Si fa prendere, dichiara Ghéon, dal piacere di scrivere e non si risparmia nulla: «in tal modo fa proprio il contrario di quanto fa l’opera d’arte, vale a dire l’inventario delle sue sensazioni.» «Quell’organica soddisfazione che ci procura un’opera di cui abbracciamo con uno sguardo tutte le membra e la forma, Proust ce la rifiuta ostinatamente. Il tempo che un altro avrebbe impiegato a fare luce in questa foresta, a misurare lo spazio, a aprirvi delle prospettive, lo impiega a contare gli alberi, le diverse specie di essenze, le foglie sugli alberi e quelle che sono cadute. E ogni foglia la descriverà come diversa dalle altre, nervatura per nervatura e il dritto e il rovescio. Ecco il suo divertimento e la sua civetteria. Scrive dei ‘pezzi’. Mette il suo orgoglio nel ‘pezzo’: cosa dico? nella singola frase.»
Naturalmente ci sono recensioni amiche come quelle di Maurice Rostand, di Lucien Daudet, di Jacques-Émile Blanche, ma anche queste – pur elogiando la verità psicologica, la scrittura, lo splendore poetico e la formidabile precisione di alcune descrizioni – non sembrano adeguarsi alle direttive di Proust e appaiono implicitamente disorientate davanti a questo libro che vuole essere un «romanzo» e che allinea una serie di pannelli discontinui. Non si può non pensare alle ultime pagine del Temps retrouvé dove Proust racconta che, quando gli accadde di mostrare i primi abbozzi della sua opera, «nessuno ci capì niente.»

Ma proviamo a guardare il libro con gli occhi di un lettore che lo avesse preso in mano tra la fine del 1913 e i primi mesi del 1914. Ad apertura si era trovato davanti a un narratore in prima persona che aveva raccontato le proprie esperienze en homme qui dort e che aveva fatto ruotare intorno al suo letto i frammenti di una intera esistenza e affiorare, nelle prime dieci pagine, quasi tutti i temi che si ritroveranno disseminati nei vari volumi della Recherche. Subito dopo era partita la rievocazione di Combray che verso pagina duecento, quando il racconto era tornato nella stanza dell’inizio per farci assistere al risveglio del narratore, si era interrotta bruscamente. Era cominciato allora Un amour de Swann, un romanzo in cui di chi aveva detto io e aveva raccontato in veste di protagonista restava solo qualche piccolissima traccia dispersa qua e là. Una volta che quel romanzo, dopo altre duecento pagine, era arrivato alla fine, era iniziata l’ultima parte, la più breve, di sole quaranta pagine. Era iniziata rievocando le molte camere che si erano presentate alla memoria del narratore durante le notti di insonnia per arrivare poi rapidamente ai Champs-Élysées, a Gilberte, a Madame Swann, al suo salotto e alle sue passeggiate al Bois de Boulogne.

Non ci sono dubbi che quel lettore avrebbe avuto le sue buone ragioni per giustificare la sua cecità. Avrebbe potuto, e forse dovuto diciamo noi, di fronte all’ottusità e al malanimo di certe letture, cedere al fascino di molte pagine sublimi e all’incanto di una scrittura che, una volta che se ne sia introiettato il ritmo, si svolge luminosa nelle sue ampie e sempre controllatissime volute fino a quando, sottoposta ad accelerazioni improvvise, si trasforma in un prestissimo di formidabile efficacia. Non era facile, come dimostra l’iniziale sordità di Gide, ma non era neanche impossibile, mentre quasi impossibile era trovare un filo e vedere in quei successivi pannelli l’emergere di un disegno.

D’altronde Proust era perfettamente consapevole dei rischi connessi alla pubblicazione di un solo volume, quando l’opera ne prevedeva diversi: «bisogna rassegnarsi a non essere compresi perché il mazzo delle chiavi non si trova nello stesso corpo di edificio in cui si trovano le porte chiuse. Ed è anche vero che bisogna rassegnarsi a qualcosa di peggio, a non essere letti.» Quello che a noi, a cui quel mazzo di chiavi è stato consegnato, appare perfettamente leggibile e che ci permette di vedere in Du côté de chez Swann la base della grande «cattedrale» che Proust ha eretto, dipende da una «illuminazione retrospettiva» analoga a quella che, secondo la Recherche, Balzac e Wagner erano riusciti, in modo non programmato a priori, a proiettare sulla Comédie humaine e sulla Tetralogia. Proust quella «illuminazione retrospettiva» la pianifica e, con inflessibile coerenza architettonica e con una strategia calcolata al millimetro, riduce quasi a zero le anticipazioni e incappuccia di buio molti dei possibili sviluppi della sua opera: solo chi sarà arrivato alla fine, avrà la possibilità di aprire finalmente tutte le porte.
Ho detto che era quasi impossibile riconoscere che dietro i diversi episodi del Du côté de chez Swann si nascondeva un disegno funzionale e unitario e che lo stesso Proust era del tutto consapevole dei rischi a cui lo esponeva la scelta che aveva compiuto. Alla luce di questo non è difficile immaginare con quale felicità e sollievo Proust dovesse leggere la lettera che Jacques Rivière gli inviò nei primi giorni del febbraio 1914. Purtroppo quella lettera è andata perduta, ma possediamo la risposta che è molto famosa e che porta la data del 6 febbraio: «Finalmente trovo un lettore che indovina che il mio libro è un’opera dogmatica e una costruzione.» La parola «indovina» è sottolineata da Proust ed è un omaggio all’intelligenza di un lettore che aveva aperto il libro un mese prima durante un viaggio in treno da Angoulême a Parigi. «Non sono riuscito a staccarmene – scriveva il 5 gennaio Rivière alla sorella. – Trovo che sia di un interesse appassionante e a tratti di un’ammirabile profondità. Ho finito la prima parte.» Ma, se diamo fede a una testimonianza fornita dallo stesso Rivière dieci anni dopo, fu la seconda parte, Un amour de Swann, che lo «sconvolse con maggiore forza. Entrai in un nuovo mondo. Avevo la sensazione di vedere aprirsi sull’amore una porta che mai nessuno aveva notato.»

Quasi negli stessi giorni il libro trova un altro lettore d’eccezione. «Ti manderò tra pochissimo – scriveva Rilke a Lou Salomè il 9 febbraio 1914 – un libro di Marcel Proust, la seconda parte è quasi soltanto un romanzo, ma il resto è magnifico, ricco di idee inesauribili e di connessioni, e molto interessante per la psicoanalisi.» A differenza di Rivière, Rilke sembra essere colpito dalla parte non narrativa di Du côté de chez Swann, quella che non è «quasi soltanto un romanzo» e che dovrebbe, pensa, suscitare l’interesse degli analisti. Non mi risulta che nessuno abbia allora raccolto il suo invito.

Perché quella strada, che Rilke aveva intravisto immediatamente, venga inaugurata, in modo adeguato e con una prospettiva di ampio respiro, bisogna aspettare il gennaio 1923. È allora che Rivière pubblica dapprima uno splendido articolo sul numero che la «Nouvelle Revue Française» dedica a Marcel Proust, morto poco più di un mese prima (il 18 novembre); e subito dopo tiene una serie di quattro conferenze al Vieux Colombier, intitolate Quelques progrès dans l’étude du coeur humain (Freud et Proust).
L’articolo e le conferenze possono essere considerati la conclusione di una storia singolare e sotto certi punti di vista inquietante. Dopo quel «finalmente un lettore che indovina…» era iniziata tra i due un’amicizia che si era andata consolidando negli anni e che li aveva visti ripetutamente collaborare per scegliere le pagine della Recherche da anticipare sulla «Nouvelle Revue Française», per parlare dei volumi che, a partire da A l’ombre des jeunes filles en fleur, venivano pubblicati da Gallimard o anche per correggere il testo dell’unico romanzo, Aimée, che Rivière abbia mai pubblicato. La stima, l’incondizionata ammirazione del critico vengono ribadite infinite volte e tuttavia non c’è traccia del saggio che le premesse sembravano preannunciare. Rivière scrive più di una volta su Proust, ma si tratta di articoli brevi e abbastanza generici che deludono le aspettative del suo corrispondente. Qualcosa sembra bloccare Rivière e impedirgli di procedere, quasi che dietro la sua sincera ammirazione ci fossero resistenze insormontabili e che qua e là affiorano: le abitudini di lettura che si erano formate sui simbolisti; l’«amoralismo» e l’assenza di «ogni dimensione metafisica» nel mondo di Proust che urtavano lui e gli altri critici cattolici, capaci peraltro di cogliere la grandezza dell’opera; e, su un piano del tutto personale, la «disperazione» che confessava di provare ogni volta alla lettura di Proust e che lo induceva «a maledire il destino» per avere fatto di lui, Rivière, uno scrittore.

È come se l’incontro con Freud da un lato e la morte di Proust dall’altro avessero sbloccato di colpo la situazione. Ed è sbalorditivo vedere con quanta geniale lucidità, con quanta fermezza Rivière individui da subito la piattaforma su cui può essere trovata, senza forzature e senza ricorrere ad analogie di superficie, una sintonia reale: «Proust e Freud inaugurano un nuovo modo di interrogare la coscienza. Rompono con le indicazioni del senso intimo; non vogliono più restargli in parallelo; aspettano, spiano, invece dei sentimenti, i loro effetti; non vogliono capirli che attraverso i loro segni. L’uomo interiore è qui trattato per la prima volta come un corpo sulla cui composizione non possono istruire che le reazioni a cui dà luogo.»

Si tratta di una rivoluzione radicale che liquida definitivamente, sia nel campo della psicologia che in quello della letteratura, l’introspezione classica. Il lettore che prese in mano quel libro subito dopo la sua pubblicazione aveva dunque tutti i motivi per essere sconcertato: si trovava davanti un’opera lunga e che sarebbe diventata lunghissima, con un groviglio di piste, con un moltiplicarsi di indizi e di segnali a prima vista contraddittori. Era una macchina mostruosa ed enigmatica: disintegrava abitudini di lettura e orizzonti di attesa e, in quel novembre del 1913, lasciò un segno decisivo sull’inizio di un secolo che, dirà Musil, stava nascendo «in posizione podalica.»