«Non è un afghano». «Non ci rappresenta». «È illogico cercare nel paese di origine le ragioni del suo gesto». Subito dopo l’annuncio che la strage di Orlando era stata compiuta da Omar Mateen, 29enne nato a New York e di origini afghane, qui a Kabul è scattata immediata, sui social network, nelle case e per strada, una reazione di difesa. Perfino di indignazione. Gli afghani non ci stanno.

Non gli piace l’insistenza con cui i media hanno puntato l’attenzione sul paese di provenienza di Mateen. Come se bastasse questo – un legame indiretto con una terra martoriata dalla guerra, che evoca immaginari di jihadisti barbuti e islamisti radicali – a dare ragione dell’attentato al nightclub Pulse di Orlando, domenica mattina. «L’Afghanistan è un paese che subisce il terrorismo, non che lo esporta». Così si sente dire tra le bancarelle di frutta e verdura del bazar principale di questa città inquinata e caotica perfino in questi giorni, in pieno Ramadan.

«Siamo vittime dei terroristi internazionali come Bin Laden, non abbiamo mai creato problemi ad altri», insistono a Deh Afghanah, quartiere popolare che si estende su una collina sopra Salang Wat, una delle strade principali di Kabul. Ed è vero: non era di nazionalità afghana nessuno degli attentatori dell’11 settembre 2001, l’attacco terroristico da cui è nata la più importante narrazione della politica estera americana dalla caduta del muro di Berlino: la «guerra al terrore» dichiarata da George W. Bush, inaugurata proprio con i bombardamenti su questo Paese.

Qui in Afghanistan, 15 anni dopo, quella guerra è ancora in corso. Secondo i calcoli di Unama, la missione delle Nazioni Unite, ha mietuto circa 3.000 morti civili ogni anno. Molti di più, sostengono gli autori di Body Count. Casualty Figures After 10 Years of the “War on Terror”, un rapporto redatto nel 2015 da tre gruppi di scienziati attivi nella causa del pacifismo e del disarmo nucleare: Physicians for Social Responsibility, Physicians for Global Survival e gli International Physicians for the Prevention of Nuclear War. Per loro, i morti in Afghanistan sarebbero stati, fino all’anno scorso, 220.000. Gli afghani ancora non se ne danno ragione.

I Talebani hanno offerto ospitalità a Bin Laden. È vero. Ma il rapporto tra i due gruppi è sempre stato burrascoso. E i turbanti neri, pur affidandosi a sostegni esterni, non hanno mai abdicato a un principio fondamentale: il jihad si fa all’interno dei confini afghani. Non fuori. Un principio ribadito più volte, prima di morire, dallo stesso leader storico mullah Omar: «Non intendiamo danneggiare nessuno». Dopo Orlando, chi guarda all’Afghanistan come matrice della strage, evocando un contesto famigliare fatto di radicalismo e fondamentalismo, lo fa riferendosi al padre di Omar Mateeen, Seddique Mir Mateen. Un uomo eccentrico, residente da anni in Florida, conduttore di un programma televisivo trasmesso dal canale Payam-e-Afghan.

Nei suoi interventi televisivi, postati su Youtube, Mateen sostiene i Talebani, ha scritto il Washington Post. «Ecco la prova definitiva. Tutto si tiene», hanno dedotto alcuni, tra i quali il candidato alla presidenza Usa Trump. Ma Omar Mateen, più che un islamista radicale, è un uomo strambo, dalle idee confuse, un esibizionista che negli Usa ha inaugurato una Repubblica transitoria d’Afghanistan, con tanto di presunti ministri nominati via Facebook, e che dispone di un serbatoio inesauribile di accuse verso tutto il sistema politico afghano.

Un presenzialista che guarda con sospetto al Pakistan e che non ha esitato a condannare il figlio. Chi traccia una linea retta tra le presunte simpatie talebane del padre di Omar Mateen e l’attentato di Orlando, rivendicato dallo Stato islamico, dimentica poi una cosa importante. I Talebani e il gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi appartengono a costellazioni diverse. Perfino opposte.

Antagoniste per ragioni ideologiche e dottrinarie: gli uomini del Califfo attingono al salafismo jihadista, i Talebani alla scuola Deobandi. Entrambi i movimenti rivendicano di essere guidati dalla vera «guida dei fedeli», mullah Abaitullah Hakundzada in un caso, Abu Bakr al-Baghdadi nell’altro. Sono gruppi opposti anche per ragioni strategiche. I Talebani hanno un’agenda tutta domestica, interna alla cornice dello Stato-nazione afghano; gli ideologi del Califfo perseguono invece un’agenda globale e guardano con sospetto allo stesso concetto di nazione su cui tanto insistono i barbuti di qui. Tra i due gruppi, dunque, non solo non c’è alcun legame, ma non corre buon sangue. «Confondere i piani è sbagliato», ricordano in molti, qui a Kabul: «non siamo terroristi. Non c’entriamo neanche questa volta».