Il tempo di una sigaretta accesa, la traccia di fumo che si dilegua nell’aria, il mozzicone che dà forma alla memoria dell’atto. Poi si ricomincia, il tempo di un’altra sigaretta e un’altra ancora. Come i chilometri macinati sulla strada, intercettando un panorama umano ricco di sfumature, tra albe grigie, crepuscoli incendiati, notti illuminate dai neon intermittenti e giorni immersi in una luce stridente.

041-045 Daido Moriyama, Untitled, 1970s (courtesy of the artist)
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L’attimo è fissato nello scatto fotografico, testimone silenzioso di una necessità. Perché risponde a un bisogno profondo l’approccio che Hiromichi (Daido) Moriyama (Ikeda, Osaka 1938, vive e lavora a Tokyo) ha sempre avuto con il mezzo fotografico. «Leggendo On the road mi resi conto che il metodo descrittivo era sorprendentemente vicino alla mia idea del mondo. Kerouac riusciva a restituire le mie immagini del viaggiare, dello stare per strada. Non c’è un soggetto preciso, descrive ciò che lo circonda per il solo fatto che è lì, in quel momento. È la stessa idea che ho anch’io nell’attimo in cui fotografo», afferma Moriyama.

Il suo uso graffiante del bianco e nero è la rappresentazione di un’inquietudine, una ricerca continua che, agli esordi della carriera coincise anche con il gesto contestatario condiviso con molti colleghi, a cominciare dall’agenzia Vivo fondata nel 1959 da Eikoh Hosoe, Ikko Narahara, Kikuji Kawada e Shomei Tomatsu. Il suo trasferimento a Tokyo, nel 1961, fu dettato proprio dalla volontà di conoscere quel gruppo, che però cessò l’attività in quello stesso momento. «Riuscii, comunque, a mettermi in contatto con Hosoe – racconta il fotografo – Intrapresi con lui una collaborazione che durò tre anni, durante i quali ho seguito come assistente tutta la sua produzione.

124 Daido Moriyama, Untitled, 1970s (courtesy of the artist)
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Particolarmente significativo è stato seguire in ogni fase, dalla fotografia alla stampa, e poi la post produzione del progetto Barakei, legato alla figura di Yukio Mishima, uno dei lavori più famosi di quel periodo. Quanto a William Klein, ci siamo conosciuti a Osaka, nel momento in cui mi stavo per trasferire a Tokyo, con la certezza che ci saremmo rivisti. Mi colpì molto la sua personalità, per non parlare delle fotografie. Non era certo la prima volta che vedevo foto, sia del Giappone che di altri luoghi, scattate da uno straniero. Ma l’idea che avevo della fotografia è stata letteralmente ribaltata grazie alle immagini di Klein. Che fighe, pensai la prima volta che le vidi! Con lui ho scoperto le potenzialità della fotografia come prodotto artistico in grado di colpire».

La vita va vissuta momento dopo momento nella sua completezza incoerente, nella sua contraddittorietà esasperante, nella sua vitalità debordante: questo è il messaggio che arriva dalle fotografie di Moriyama. Una narrazione parallela è contenuta nelle centinaia e centinaia di scatti a colori che, pure, il fotografo giapponese ha collezionato in maniera quasi compulsiva dagli anni Sessanta ad oggi: alcuni (incluse le polaroid del 1997) sono presenti nel volume pubblicato in occasione della mostra William Klein + Daido Moriyama alla Tate Modern di Londra (2012/2013).
Ma è solo con la pubblicazione della monografia Daido Moriyama in Color. Now, and Never Again (Skira, pp. 480 euro 59), realizzata in occasione della mostra alla galleria Carla Sozzani di Milano e promossa da Fondazione Fotografia Modena e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena che la ospitano attualmente al Foro Boario di Modena (fino all’8 maggio), che vengono presentate per la prima volta oltre duecentocinquanta fotografie a colori scattate tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80.

«I temi si ripetono, ma il colore li ingentilisce», scrive Filippo Maggia. E cita lo stesso autore che, pur trovando che il bianco e nero sia molto più sexy e accattivante del colore, sostiene: «Il bianco e nero racconta il mio universo interiore, le emozioni e i sentimenti più profondi che provo ogni giorno camminando per le strade di Tokyo o di altre città, come un vagabondo senza mèta. Il colore descrive ciò che incontro senza filtri, mi piace registrarlo per come si presenta ai miei occhi. Il primo è ricco di contrasti, è aspro, riflette a pieno il mio carattere solitario. Il secondo è gentile, riguardoso, come io mi pongo nei confronti del mondo».