Paul Verhoeven quando parla di Elle, ci tiene a dire che il personaggio di Michéle, la protagonista, magnificamente espressa da Isabelle Huppert, era già tutto nel romanzo di Philippe Djian, “Oh…” in Italia edito da Voland (con la traduzione di Daniele Petruccioli), e che lui si è «semplicemente» limitato a tradurlo nelle immagini – «Abbiamo raccontato il personaggio di Michéle così com’era nel romanzo. Una donna che ha subito dei traumi ma che non vuole essere considerata una vittima» .

A parte i cambiamenti di un normale lavoro di adattamento le differenze – ma anche le affinità – vanno cercate altrove. Certo la Michéle di Djian è una produttrice cinematografica di successo, e non il boss di una azienda che produce videogiochi per adulti, in cielo e nel mondo cerca di interpretare i segni con cui decidere le sue prossime azioni o scelte perché, come dice sin dall’inizio: «Ho ammesso l’esistenza di certe cose e ho lasciato riderne chi voleva riderne».

Un’ansia del controllo la sua che sconfina nella nevrosi di chi deve tutto incasellare, ordinare, prevedere per non lasciarsi sorprendere dal mondo, e ogni istante di possibile distrazione può rivelarsi fatale che è la stessa su cui si costruisce l’esistenza della Michéle verhoeveniana. Ma quello che il regista e lo sceneggiatore, David Birke, hanno radicalmente cambiato è la lettura della vicenda, e il suo significato, attraverso il contesto. Pur rimanendo intatto l’ambiente di ricchezza non è la critica all’alta borghesia, ai suoi vizi e alle sue dinamiche che interessa Verhoeven.

Nel film tutto si concentra su «Elle» sulla lei del titolo, donna enigmatica, feroce e insieme fragilissima, su quel suo bisogno spasmodico di controllo sul mondo, sugli altri siano i familiari che le persone con cui lavora, gli amanti o gli amici, pur frustrando i suoi stati d’animo, il disprezzo persino che prova verso di loro. Quanto di ciò che la circonda di spregevole o insopportabile vi sia viene riflesso e restituito dalla percezione della donna, dal suo sentire: così il figlio inetto, la sua orrenda fidanzata, la madre di Elle che si abbandona ai gigolò inseguendo giovinezza e desiderio che in quei ragazzi sono soltanto una questione di soldi, il marito persino nei suoi tentativi ripetuti di cercare fidanzate solari all’opposto di lei.

Elle è una diversa Catherine Tramell, l’indimenticabile sharonstoniana di Basic Instinct, seduttrice armata di punteruolo (divertito capovolgimento del fallico) che reinventa la realtà nell’affabulazione della sua scrittura. Elle invece la realtà sembra «rimuoverla», confinarla da qualche parte per difendersene. Verhoeven vira la tragedia nell’umorismo nero, contamina farsa, thriller psicologico, l’ammiccamento alla borghesia rimane nell’aura chabroliana della sua attrice.

Moralismi e sensi di colpa e vergogne vengono messi da parte per mettere a nudo le pulsioni umane con libertà. Che Verhoeven non giudica, aderendo allo stesso stupore alla prima persona narrante del romanzo senza altre giustificazioni che Elle.