Era anche uomo dei paradossi, Leonard Cohen, che amava rovesciare i vestiti stretti alla realtà, come succede spesso nelle storie buffe dell’umorismo ebraico, come succede sempre nei paradossi zen, per cui una gran tour a tappe forzate nell’opera discografica lasciata dal Gran canadese incomincia dalla coda ultima di pochi giorni fa, ottimo viatico per poi risalire lungo la corrente di una poesia in musica tanto impetuosa quanto elegante.

Si inizi dunque con la dolorosa intensità negativa, da diamante nero grezzo, di You Want it Darker, estremo lasciato di Cohen. Completato con fatica e dignità, lasciato lì a riflettere il buio di uno specchio nero affacciato sulla fine. Cohen chiude il suo cerchio iniziato sui solchi del vinile cinquant’anni prima e lo fa, non a caso, facendo interagire un coro maschile da sinagoga con la sua voce abissale, un pacificato fiume carsico di bassi estremi per dire «Sono pronto, mio signore». Lui che, in realtà, ha duellato per una vita nelle sue canzoni (e nella sua esistenza) con un dio perennemente evocato, cercato e mai trovato. Si passi da lì, con una capriola di mezzo secolo, al primo colpo da maestro, piazzato nel dicembre del ’67.

Songs of Leonard Cohen. Nei credits non appaiono, ma ci sono i magnifici Kaleidoscope dalla California a dare una mano in studio con il loro strumentario anche mediorientale a quelle canzoni semplici, eleganti e perfette, scolpite verso dopo verso, con una spanna di cuore che batte anche verso il ricordo di un’Europa lontana, da chansonnier. È nata una voce che si porterà dietro tutti i cavalieri oscuri e dubbiosi, almeno da Fabrizio De André, che vestirà di altra poesia tre anni dopo quel capolavoro di delicatezza poetica verso le donne nel disco che è Suzanne, a Nick Cave il Re Inchiostro. E c’è anche The Stranger Song, un arpeggio ossessivo che diventa un fiume di dolcezza per parlare di un uomo che guarda incuriosito a se stesso ed alla propria fragilità sorgiva, il modello evidente di quanto, anni, dopo, sarà Amico Fragile di Faber. Si noti: Cohen quando entra in studio ha l’età di Cristo, trentatre anni, non è un ragazzino, ma un giovane talento della letteratura canadese che ha fatto parlare di sé dove si annusano le persone di valore. E ha aguzzato le orecchie un signore che nella vita non ha fatto altro che scoprire artisti speciali: prima ha scovato Billie Holiday, poi Bob Dylan, ora tocca a Leonard Cohen.

La magia continua e si affina con Songs From a Room, 1969: da lì, di nuovo, De André attingerà Seems So Long Ago, Nancy, che diventa Nancy, lì trovate la monumentale Bird On The Wire, e l’epica The Partisan, dove Cohen riprende il «Compianto del partigiano» di Anna Marly, su parole originali scritte dal maquis francese Emmanuel d’Astier de la Vigerie. Nel successivo Songs of Love and Hate, del ’71, si stagliano almeno due gemme dolenti, su un discreto tappeto d’archi a fondale, per un disco che prevede anche interventi di un coro di bambini: Famous Blue Raincoat («E che ti posso dire ora fratello mio, mio assassino? Credo che mi manchi, credo di averti perdonato, credo di essere felice che tu abbia seguito la mia via»), una delle più straziate canzoni d’amore mai scritte, e Joan D’Arc.

La musica si veste di molti colori nel magnifico New Skin For The Old Ceremony, il capolavoro del ’74, sia per intervento di una squadra perfetta di musicisti, sia per la varietà di situazioni sonore inventate da Cohen, una voce che spesso è un soffio ubriaco e spiazzante, come in Lover Lover Lover e nella luciferina Leaving Green Sleeeves. Devono passare dieci anni prima che il poeta del Quebec ricominci a piazzare canzoni memorabili: ma Various Positions, 1984, è un colpo di reni inatteso e bruciante, con la potenza in legacci di Dance Me To The End Of Love, e il rotolare composto e sapienziale della sontuosa Hallelujah, che il compianto Jeff Buclkey trasformerà in una sorta di liturgia angelica.

Da lì inizia il ritorno del bardo dalla voce profonda come il mare: in I’m Your Man c’è la fortunata e ironica First We Take Manhattan, in The Future, un disco marcato da una voce che sembra arrivare dalla catacombe nascoste dell’umanità c’è Closing Time, per molti la sua vetta più alta.

Cohen è tornato, è un signore anziano che continua a vivere con la sigaretta in mano danzando sul filo di rasoio di una incredulità pronta a farsi disperato voglia di credere. E passa gli ultimi anni a regalare a intervalli periodici dischi splendidi e sussurrati, il canto ridotto a un epitomico «talking» morbidamente appoggiato sugli strumenti e su sinuosi cori femminili.
Su Popular Problems sfiora sornione una musica che dentro gli era sempre pulsata, Almost Like The Blues, su Old Ideas piazza un diretto al cuore subito in apertura, Going Home, su Can’t Forget la gemma arriva da un soundcheck in Nuova Zelanda, Got a Little Secret. Volete le cose più scure ancora? Ripartite da You Want it Darker. E poi dal primo, e così via. E così sia.