La crisi è un metodo di governo. Ha fatto emergere un autoritarismo dell’urgenza che ha impietosamente svuotato la forma e la sostanza delle cosiddette democrazie «capital-parlamentari». Il laboratorio greco lo ha ampiamente mostrato: scavalcamento dell’esecutivo e impoverimento di massa. Come scrisse già a suo tempo Milton Friedman – scimmiottato innumerevoli volte dai tecnocrati europei – soltanto una grande crisi offre l’occasione per diffondere in modo quasi-automatico trasformazioni radicali: è grazie alle crisi che, fortunatamente, «il politicamente impossibile diviene il politicamente inevitabile». Si tratta della dimensione costituente della crisi, ossia della rottura definitiva con gli ultimi residui sopravvissuti alla precedente svolta storica inaugurata nel quinquennio ‘68-‘73, la quale si configura, al contempo, come rilancio della valorizzazione capitalistica e come comando sulla nuova composizione di classe. A partire da questi spunti di riflessione teorica e politica, lo scorso 29-30 novembre si è tenuto al CS Cantiere e allo Spazio di Mutuo Soccorso di Milano un seminario promosso da Commonware ed Effimera, i cui contributi sono ora liberamente disponibili nell’ebook (La crisi messa a valore, scaricabile dai siti di Commonware e Effimera).

Due gli snodi tematici principali sui cui si focalizza il confronto – zeppo di rimandi reciproci tra i diversi interventi: gli scenari economico-politici della governance imperiale e la ricerca di una ricomposizione politica difficile da costruire. Partiamo dal primo. Se Massimiliano Guareschi individua negli smottamenti in corso una sorta di «motore di irreversibilità, una singolarità che apre a un campo guerreggiato in cui si definiscono nuovi equilibri ed emergono nuovi attori istituzionali», Andrea Fumagalli mette in luce il suo carattere poliedrico ed eterogeneo relativo alle specificità dei diversi capitalismi regionali e al loro posizionamento gerarchico all’interno dell’imperialismo globale. Tale prospettiva consente di intrecciare le differenti traiettorie della crisi al ridispiegamento delle varie dinamiche di accumulazione e alle rispettive conflittualità sulle quali esse sfociano di volta in volta, tanto sul piano nazionale che internazionale. A farla da padrone i processi di finanziarizzazione, col loro seguito di alleanze inedite sullo scacchiere mondiale (la recente creazione da parte dei Brics di una banca di investimenti indipendente dai forzieri occidentali) e di espropriazione violenta dei frutti prodotti dal lavoro vivo come della ricchezza sociale già esistente (il comune del capitale).

In questo quadro congiunturale, come ricorda Raffaele Sciortino, gli Usa proseguono imperterriti il loro prelievo «sulle catene del valore globale». Malgrado le difficoltà crescenti del loro regime d’accumulazione, gli Stati Uniti costituiscono infatti il «perno del sistema di riciclo della liquidità internazionale e dei surplus commerciali»: una posizione di rendita poggiante su un apparato finanziario e cognitivo che permane ancora, nonostante tutto, sostanzialmente ineguagliato. È all’orizzonte di questo caos sistemico attraversato da giganteschi «sconquassi geopolitici» che si stagliano la «guerra diffusa» analizzata con finezza da Christian Marazzi intervistato da Gigi Roggero, l’«Europa degli Hunger Games» cui si riferisce Costantini, o, ancora, il reverse engineering della Cina afflitta dalla «trappola del reddito medio» (Gabriele Battaglia), così come «le impasse del divenire-sud della politica» che attanagliano il Brasile in seguito alle imponenti mobilitazioni del 2013 (Giuseppe Cocco), le quali hanno di fatto segnato la morte del precedente ciclo progressista: «la misteriosa curva della retta lulista», per dirlo con Bruno Cava.

A fungere da cerniera tra questa vasta carrellata di diagnosi e le ulteriori interrogazioni gli interventi di Carlo Vercellone e Salvatore Cominu: il primo, pregevole per trasparenza, volto a chiarire l’arsenale concettuale forgiato per comprendere il passaggio al «capitalismo cognitivo»; il secondo impegnato a sottoporre con estrema lucidità a vaglio critico questo stesso armamentario, soffermandosi in particolare sulle categorie di «capitale estrattivo» e di «lavoro cognitivo». A partire da questa cornice analitica che ridiscute le acquisizioni teoriche degli anni passati alla luce degli accadimenti recenti, i contributi successivi tentano di esplorare le problematicità inerenti ai processi di soggettivazione autonoma in un contesto di aspettative di vita decrescenti, fatto di precarietà forzata e di carenze di reddito. Se Cristina Morini insiste, sulla scorta del femminismo materialista, sulla crucialità della riproduzione e del valore d’uso per scardinare i dispositivi di organizzazione e disciplinamento del capitale, gli interventi del CS Cantiere, di Sisto e di Paolo Vignola pongono in risalto la quotidianità dell’abitare nella crisi, l’immediatezza dei bisogni concreti e l’importanza della creazione di forme discorsive riconoscibili per costruire percorsi di auto-organizzazione capaci di migliorare fin da subito le condizioni di vita, materializzando desideri, istanze e passioni che aprono su nuovi orizzonti di lotta ed aggregazione.

Gli ultimi tasselli di questo ricco mosaico sono infine forniti da due pezzi dal sapore diverso: quello di Francesco Maria Pezzulli, sulle «non lotte» nei call center, e quello di Anna Curcio, sulla pluralità delle linee di frattura operate dalle lotte della logistica, le quali evidenziano la centralità dell’antirazzismo radicale.
In breve, La crisi messa a valore rappresenta uno sforzo importante al fine di ridisegnare una mappa teorica e politica all’altezza delle sfide del presente. O meglio: mette a disposizione una bussola preziosa, indispensabile per risolvere «il rompicapo della composizione di classe».