Tra il 2012 e il 2014 Damasco è stato accusato di aver usato bombe a grappolo contro la popolazione civile. Un atto condannato dalla comunità internazionale: 135 paesi non si sprecarono nel definire Assad un macellaio. Eppure 13mila bombe a grappolo firmate Usa e Gran Bretagna erano piovute tra il 2003 e il 2006 sull’Iraq. Due anni dopo una convenzione internazionale Onu (adottata da 116 Stati) ne vietò l’uso per l’elevato numero di vittime civili. Vere e proprie bombe a orologeria: ogni ordigno contiene decine di munizioni che restano sul terreno uccidendo anche molto tempo dopo i raid.

E ora rispuntano: di nuovo made in Usa. A sganciarle è l’aviazione saudita in Yemen. A denunciarne l’utilizzo è Human Rights Watch, secondo cui i jet anti-Houthi hanno colpito con bombe a grappolo villaggi a nord controllati dal movimento sciita. Secondo il gruppo, il 17 aprile sono stati trovati ordigni Blu-108, prodotti dall’azienda Usa Textron. Gli Stati uniti – come il partner d’acciaio, l’Arabia saudita – non hanno firmato la convenzione, ma la legge statunitense vieta di vendere bombe a grappolo a paesi che ne fanno uso in aree abitate da civili.

E se Riyadh tace, la reazione Usa è blanda: il portavoce del Pentagono fa sapere che il Dipartimento di Stato sta investigando e ha fatto appello alle parti perché «rispettino il diritto internazionale». Un capolavoro di ipocrisia, che affonda le radici nel tradizionale doppio standard statunitense: quando delle armi non convenzionali fanno facile uso gli alleati, si può chiudere un occhio.

L’altro occhio Washington lo ha chiuso sabato in Siria. Secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, da 4 anni schierato contro il presidente Assad, un raid Usa ha ucciso 52 civili a Birmahle, nord est di Aleppo. «Un massacro», lo definisce l’Osservatorio, perpetrato «con il pretesto di colpire l’Isis». L’esercito Usa conferma solo di aver colpito l’area giovedì, due giorni prima, e nega di aver avuto come target zone abitate da civili. Sul piatto resta l’efficacia della coalizione: dopo mesi di raid il califfato non arretra, perde poco territorio (Tikrit in Iraq, Kobane in Siria), ma mantiene le posizioni radicando i settarismi interni e favorendo (possibilità pubblicamente accarezzata da Washington) la divisione etnica e religiosa dell’Iraq. Che prosegue a suon di stragi: venerdì tra 200 e 300 prigionieri yazidi, minoranza irachena, sono stati uccisi vicino Mosul dai miliziani di al-Baghdadi.

A tentare un’uscita dalla crisi siriana ci riprova l’inviato Onu Staffan de Mistura che oggi lancerà consultazioni separate con le parti coinvolte, governo, opposizioni moderate (fuori al-Nusra) e attori regionali, della durata di sei settimane.

A prevalere però è la realpolitik, quella dettata dagli affari: il business delle guerre mediorientali garantisce alle compagnie private Usa profitti da capogiro. Per combattere l’Isis, Washington spende ogni giorno 7,5 milioni di dollari. Un giro di affari che non si ferma certo al califfato, ma arriva fino in Yemen dove l’Arabia saudita è protagonista: Riyadh è il principale importatore di armi al mondo, con una media di 5,5 miliardi di dollari l’anno investiti in armamenti Usa. Tra questi le bombe a grappolo.

Dietro sta la necessità di piegare la resistenza Houthi: due settimane fa la coalizione annunciava vittoriosa la fine dell’operazione “Tempesta decisiva” e l’avvio della fase politica e umanitaria. Ma Riyadh non ha vinto e non sta vincendo. Gli sciiti non mollano le zone occupate da settembre, mantengono il controllo della capitale Sana’a e della capitale ad interim Aden, trasformata in una prigione: centinaia di famiglie sono intrappolate in città, senza quasi più cibo né medicinali, ostaggio degli scontri via terra tra Houthi e forze governative.

Accanto a queste ultime sarebbero stati schierati, domenica, i primi 100 soldati della coalizione (truppe da Sudan e Emirati Arabi), un’operazione via terra che sarebbe organizzata da Riyadh «a fini di ricognizione». I sauditi negano, nonostante le dichiarazioni contrarie di funzionari yemeniti.

Una lunga lista di accuse a cui la famiglia Saud tenta di mettere una pezza: ieri il ministro degli Esteri al-Jubeir ha fatto sapere che Riyadh starebbe pensando ad uno stop temporaneo dei raid per permettere l’arrivo di aiuti ai civili, coordinando sul campo la distribuzione insieme all’Onu.