Dunque, anche il presidente Hollande, dopo il suo primo ministro, Manuel Valls, anch’egli socialista, rifiuta la politica delle quote, l’accoglienza ad alcune migliaia di disperati in fuga dai teatri di guerra che sconvolgono il Sud-Est del mondo. Non è certo una notizia che possa sorprendere, anche se un tempo – quando sotto il cielo d’Europa la confusione culturale e politica era meno densa – essa avrebbe creato clamore e scandalo. Come? Un leader socialista che mette in soffitta gli ideali di umana solidarietà inscritti nella lunga storia di uno dei più grandi partiti popolari del Continente? Oggi una simile recriminazione appare ingenua.
Gli ideali sono roba vecchia, la politica si fa guardando freddamente la realtà, con un occhio alle forze avversarie e alla loro posizione. La politica si pratica tenendo sempre in mente la competizione in atto con gli altri partiti (ma anche all’interno dei propri), perché il fine di questi è sempre il successo elettorale. Se Marine Le Pen guadagna consensi con la posizione di aperta ostilità all’immigrazione in Francia, come non tenerne conto?

Ma va proprio così? E’ realismo, è intelligenza politica, inseguire l’avversario sul suo proprio terreno, accostarsi o far proprie le sue posizioni? E si badi che per brevità non facciamo alcun esercizio di storia di breve periodo. Neppure accenniamo alle responsabilità militari della Francia nello sconvolgere assetti statali (ad esempio in Libia) che sono all’origine di grandiose fughe di popolazione dall’ Africa.

Restiamo agli esiti di questa politica sull’immigrazione, che costituisce uno svolgimento coerente della politica di Hollande da quando è diventato Presidente della Repubblica . Un politica, sappiamo, che soprattutto sul piano delle strategie di governo dell’ Ue, non ha mostrato alcuna discontinuità con il predecessore Sarkozy.

Faccio qui una rivelazione singolare e illuminante. Jean Paul Fitoussi – uno dei più autorevoli economisti europei – ha ricordato lo scorso anno un passaggio importante della carriera politica del leader francese. In una pubblica intervista rilasciata a Cosenza, a un giornalista di Repubblica, per un riconoscimento tributatogli dal Premio Sila, Fitoussi ha rivelato che al momento dell’elezione all’Eliseo aveva vivamente consigliato ad Hollande di aprire la sua presidenza con un viaggio tra i paesi mediterranei dell’Unione. Per segnare anche simbolicamente una svolta con il governo precedente e con tutta la politica di austerità dell’Ue.

Com’è noto, il neo presidente francese intraprese subito il viaggio contrario. Appena fuori di Francia andò ad abbracciare Angela Merkel. E da lì è partita la politica “realistica” francese il cui successo è sotto gli occhi di tutti.

Hollande è oggi uno dei più screditati presidenti nella storia di quella repubblica e il suo partito non gode proprio di buona salute. Quanto ai progressi economici e sociali conseguiti in questi tre anni dalla Francia sono da scolpire negli annali di quel paese.

Dunque, un partito di sinistra che tradisce per “realismo” politico il mandato degli elettori replicando la politica degli avversari, mostra, nel caso francese, degli esiti paradigmatici. Declino dei leader e del partito, nessun miglioramento significativo delle condizioni del paese, rivalutazione politica dell’avversario a suo tempo battuto (come hanno mostrato le elezioni cantonali del marzo scorso, che hanno premiato Sarkozy). Mentre il sistema politico nazionale diventa ancor più complicato e ingovernabile di un tempo.

Il Front National in Francia è più vivo che mai e i cantori del sistema politico bipolare, vecchia eredità di alcune società liberali del passato, possono rassegnarsi alla sua decomposizione, viste anche le condizioni in cui versa là dove è nato, nel Regno Unito.

Questi sono comunque i risultati immediati, ma quali sono quelli di prospettiva, gli esiti di lunga di durata di tanta lungimirante realismo?

Naturalmente, come per gli ideali, anche la rivendicazione di una visione di lungo periodo, appare una pretesa ingenua. Gli uomini politici vivono alla giornata. Non sono più i dirigenti di partiti di massa, che rappresentano interessi e aspirazioni dei propri elettori, prospettive generali di un paese, ma sono gli esponenti di un ceto a sé, il ceto politico, che vive di mandati parlamentari, di cariche pubbliche e private, di visibilità mediatica, relazioni di potere, ecc.

Perché Hollande, una volta presidente, non è andato in Italia o in Spagna, ma si è recato disciplinatamente in Germania? Doveva intraprendere una lotta comune contro i governi che stanno trascinando l’Europa nella disgregazione sociale, o doveva puntare a rendere solido il proprio potere personale ? Una volta eletto, infatti, qual’era il peso, per il proprio successo, dei potentati di Bruxelles rispetto al potere degli elettori, che avevano già votato? Ma per noi che non viviamo professionalmente di politica, per la grande maggioranza dei cittadini d’Europa, quale effetto di lungo periodo ha la scelta realistica di quel che fu un grande partito socialista, di opporsi all’ingresso dei disperati sul sacro suolo di Francia? Non si ha idea di quel che succede nell’animo di quei milioni di francesi che dal 1789 credono davvero nella Libertà, Uguaglianza, Fraternità? Nessuno riflette sulla confusione, disillusione, disorientamento che genera tra gli elettori e dunque sul loro distacco dalle istituzioni democratiche?

Un tempo i leader dei grandi partiti, intellettualmente più in alto rispetto alla massa dei loro elettori, svolgevano anche un ruolo pedagogico di guida, orientamento, educazione. Oggi instillano la paura che aree marginali della società e gli imprenditori dell’odio etnico mettono in campo come materiale mediatico di lotta politica. Ma di questo passo, anno dopo anno la cultura, la sensibilità, la civiltà d’Europa quando finirà di precipitare?

Perché una cosa appare drammaticamente certa, di cui il ceto politico che vive immerso nell’oggi non si cura: l’emigrazione è destinata a ingigantirsi nei prossimi anni. Crescerà a causa delle guerre, del disfacimento degli stati, della miseria, del fanatismo religioso, delle disuguaglianze crescenti, dell’incremento demografico dei paesi poveri. Ma, a differenza dei decenni che seguirono la seconda guerra mondiale, quando paesi come Gran Bretagna, Francia e Germania – su pressione dei rispettivi padronati – accolsero per anni manodopera a basso costo dal Maghreb, dalla Turchia e dal Sud d’Europa, oggi non viviamo in tempi di espansione economica. Non solo. Dato rilevante da ricordare, in quei decenni, in Europa, fioriva la più grande esperienza di welfare mai messo in atto dai governi.

Oggi, la situazione è rovesciata.

Sviluppo economico stentato e riduzione progressiva del welfare. Se Hollande incontra la Merkel rinuncia all’espansione del welfare europeo e senza di questo la politica di accoglienza diventa insostenibile. E se anche le forze popolari e di sinistra innalzano mura intorno alla Fortezza dell’Europa, che cosa accadrà alla qualità di vita, alla cultura, alla spiritualità (si può pronunciare?) del Vecchio Continente? Perché è pur sempre certo che, a dispetto di mille sbarramenti, milioni di persone arriveranno tra noi, nelle nostre città e nelle nostre campagne, mentre l’Europa è governata in gran parte da poteri non eletti, e da rappresentanti che tradiscono il loro popolo.

Non sarebbe tempo di pensare, oltre che a rafforzare la partecipazione popolare dal basso, a rivedere i trattati Ue, a immaginare forme più stringenti di controllo e sanzione del ceto politico con apposite istituzioni? Se dentro i partiti entrano le regole del mercato, se i dirigenti sono dei professionisti in competizione, senza passioni e senza progetti, bisognerà pure attrezzarsi per poterli licenziare come si fa in una qualsiasi azienda.