Abbiamo avuto in questi anni molte riprove della statura dei padri Costituenti, statura politica, intellettuale e morale, quindi storica: consistente nella capacità di situare nel tempo lungo interpretazioni e deliberazioni, sottraendole alle chimere della contingenza. Ne è conferma, al negativo, l’ossessione dei recenti governi di stravolgere la Carta del ’48 per neutralizzarne il nòcciolo di senso: l’antifascismo come ferma volontà di impedire che il paese ricada sotto un comando autocratico e si ordini secondo escludenti logiche gerarchiche: «di casta» direbbe Antonio Gramsci, che sulla natura del fascismo – sulla sua arcaica modernità – ragionò a lungo.

Chiarire qui perché l’ispirazione antifascista della Costituzione debba essere a ogni costo sradicata; perché il nesso che collega la Carta all’esperienza della lotta partigiana debba essere infranto mediante gesti «riformatori» che veicolano la damnatio della Resistenza antifascista: chiarire tutto ciò porterebbe lontano. Basti osservare che l’idea di società che guidò il lavoro dei Costituenti sorgeva dalla convergenza di tre obiettivi, confluenti nel principio di uguaglianza e tendenzialmente confliggenti con l’ordine capitalistico: partecipazione democratica, autogoverno collettivo, massima espansione della cittadinanza attiva. Era un’idea antitetica alla configurazione concreta che il capitalismo viene assumendo da trent’anni a questa parte sull’onda della rivoluzione conservatrice reaganiana. Dagli anni Ottanta – e con più violenza dalla fatidica caduta del Muro di Berlino – sono sempre più forti le spinte al «rinnovamento» della Costituzione del ’48, percepita come intralcio alla modernizzazione del paese, cioè al suo consacrarsi alla centralità del mercato e alla sovranità del capitale privato, quindi alla totale mercificazione di quel lavoro che la Carta pone invece a fondamento della democrazia repubblicana.

Tra le riprove dell’intelligenza politica e storica dei Costituenti è cruciale la ripresa esplicita della questione-chiave della tragedia epocale della prima metà del Novecento. Il principio di uguaglianza di cui si diceva è enunciato nell’articolo 3 della Carta, che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono lo sviluppo delle persone e l’«effettiva partecipazione» dei lavoratori all’«organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo stesso articolo afferma la «pari dignità» dei cittadini «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Razza: come va letto questo nome? E perché evocarlo insieme alle altre forme della differenza nel dettato solenne della Costituzione? Non era forse definitivamente morto il nazifascismo, che sull’ideologia della «razza» si era fondato e che per realizzare un Nuovo Ordine basato sulla gerarchia «razziale» (uno spazio europeo «purificato» dagli «inferiori»: non solo ebrei, «negri» e «zingari», ma anche omosessuali, minorati e comunisti, nella farneticante ideologia del giudeobolscevismo assimilati alla «feccia giudaica») aveva messo a ferro e fuoco l’Europa e il mondo?

Il fatto è che i padri Costituenti non concepivano il fascismo come un’invasione barbarica né come una parentesi. Vi riconobbero il portato del sottosuolo della storia italiana, il frutto avvelenato della patogenesi dello Stato nazionale. Con queste tare occorreva fare i conti nella costruzione della nuova Italia per preservarla da altre avventure. Malgrado il mito autoassolutorio degli «italiani, brava gente» era ben chiara, almeno ai più avvertiti, la normalità italiana nel quadro della modernizzazione europea: nel contesto delle dinamiche interconnesse di unificazione territoriale, costruzione della sfera politico-istituzionale e definizione del campo della cittadinanza (con le sue articolazioni interne e i relativi dispositivi di inclusione, esclusione e subordinazione).
Assunte queste lenti critiche, le magnifiche sorti e progressive della grande trasformazione che tra il 1848 e il 1918 avevano portato a compimento l’unificazione territoriale e politica e l’ibridazione antropologica del paese – le sorti narrate nell’oleografia dei miti fondativi del Risorgimento e della Grande guerra – dichiaravano la propria miserabile prosa. Il paese si rivelava solcato da faglie profonde, accomunate dall’essenziale nucleo operativo dell’invenzione delle «razze»: la naturalizzazione della differenza sociale ed economica, di genere, culturale (etica, religiosa e linguistica), «etnica» (storica e territoriale) e persino politica e ideologica.

«Razza» non è, nel linguaggio della modernità europea, soltanto il «negro» immigrato dalle colonie al cospetto del suo signore bianco. È anche il meridionale («sudicio») dinanzi al settentrionale («ario»); il marginale (variamente «deviante») confrontato al cittadino «normale»; il nomade rispetto al residente; il proletario anarchico o comunista rispetto al benpensante; il cafone confinato nell’idiotismo dialettale rispetto al colto; e la donna (di ogni classe sociale, salvo eccezioni; ma in particolare la popolana) rispetto al maschio padre e padrone. La struttura piramidale che queste polarità producono, innervata dalla violenza e dalla negazione dell’universale umano, non è certo una specificità italiana. Ma non è vero che l’Italia sia per grazia di dio immune dalla fenomenologia della subordinazione antropologica che articola – insieme alla costruzione del mercato capitalistico, e come suo (non omogeneo) corollario funzionale – la logica stessa della modernità borghese. Subordinazione antropologica che nel fascismo mussoliniano compie un salto di qualità (si pensi all’uso dell’iprite in Etiopia e alle leggi antisemite del ’38) per la sua essenza nazionalista e patriarcale e per effetto dell’alleanza col Reich hitleriano e dell’introiezione delle sue logiche sterminatrici.

Il 25 aprile del 1945 fu liberazione anche da questo cupo orrore. Ma fu piena liberazione? O un retaggio del razzismo storico è rimasto nel corpo della Repubblica nonostante la cesura di settant’anni fa? Non occorre essere perfezionisti per dare una risposta affermativa a quest’ultima domanda. Non solo il «terrone» è a lungo rimasto nel nostro lessico famigliare, in compagnia dello «zingaro», del «bifolco» e – anche al di fuori dell’arcipelago dei siti neonazisti – dello «sporco giudeo deicida». Non solo il nostro resta un paese ipermaschilista che convive pacificamente con la discriminazione sessista nell’accesso al lavoro, nelle carriere e nelle retribuzioni. Anche le risposte delle istituzioni e del senso comune alla sfida dell’immigrazione, esplosa coi primi anni Novanta, attestano la persistenza di vecchi pregiudizi (i mangiatori di banane cari agli ultras e ai vertici del calcio sono la punta di un iceberg) e l’attitudine degli stereotipi tradizionali a virare su sempre nuovi bersagli (ieri i polacchi e gli albanesi, oggi i rumeni; ieri i vu’ cumprà, oggi soprattutto gli «islamici») per il buon profitto degli imprenditori politici del razzismo nostrano.

Insomma, cambiano le forme, e i mutamenti sono rilevanti. È decisivo che l’Italia non si ispiri più programmaticamente a una gerarchia «razziale» e al contrario abbia solennemente sancito il principio dell’uguaglianza universale, che è la base che la Costituzione offre alla lotta per la democrazia e la trasformazione. Ma ciò non dissolve il nesso costitutivo tra subordinazione e riproduzione sociale che fonda la società borghese e che è la fonte del razzismo come pratica discriminatoria e come dispositivo ideologico di legittimazione. Bisogna saperlo, contro il luogo comune che il razzismo sia un residuo arcaico destinato a sparire con l’andar del tempo. No, la lotta sarà ancora lunga e aspra. Come dimostrano anche le cronache di questi anni e mesi – con le cacce all’uomo nero nelle campagne del Sud, gli attentati ai campi rom, l’exploit della Lega in sansa lepenista – «non siamo che all’inizio».