Il ciclo carnevalesco in Campania comincia il 17 gennaio – festività di Sant’Antonio Abate – e si conclude il giorno del martedì grasso per dar luogo al periodo della Quaresima. Quel giorno, in onore del santo si accendono dei fuochi, il cui significato può essere interpretato sia come purificatore che come segno relazionale con il mondo degli inferi. Scrive Annabella Rossi: «[…] Generalmente interpretato come purificatore, può essere anche un segno preciso di relazione con il mondo degli inferi, con la morte; esso fa parte di quel viaggio sotterraneo nel corso del quale gli uomini eseguono una serie di riti propiziatori per favorire la germinazione del seme». Esso ha, ancora oggi, coi suoi rituali, una funzione eversiva e liberatoria sia a livello collettivo che individuale: a livello collettivo si manifesta in differenti forme un disagio socio-economico, a livello individuale si evidenziano problematiche di tipo psicologico, quasi sempre inconsce. Tale peculiarità doppia colloca il Carnevale tra le feste definite riti di passaggio da un ciclo all’altro dell’anno, le più usuali della cultura popolare che portano con sé svariati significanti. I rituali connessi al Carnevale sono stati osteggiati fin dall’età romana e condannati in seguito come segno del male dalla Chiesa ufficiale. Esso è legato ad antichi culti agricoli di morte e resurrezione. Festa dell’inversione dei ruoli, dell’ebrezza sfrenata e della follia; una consuetudine simile alle feste in onore di Dioniso e/o dei Saturnali che avevano in comune, oltre all’uso del travestimento, il fatto di rappresentare un temporaneo “rovesciamento dell’ordine precostituito”. Secondo Michail Bachtin: «Il Carnevale, in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù. Era l’autentica festa del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento. Si opponeva a ogni perpetuazione, a ogni carattere definitivo e a ogni fine. Volgeva il suo sguardo all’avvenire incompiuto». Nella “Canzone di Zeza” è implicita la tesi del conflitto femminile (donna fallica e/o incesto col padre), difatti i ruoli femminili (Zeza e Vicenzella) sono interpretati da uomini. La larghissima diffusione (si ricordano tra i tanti paesi, quelli avellinesi di Bellizzi Irpino e Montemarano), le varianti cui si presta, i diversi elementi musicali e gestuali fanno di questo pezzo di teatro popolare uno dei più importanti della tradizione orale europea, che nella struttura delle strofe verbali risale alle villanelle cinquecentesche. Roberto De Simone sostiene: «Esaminando una di queste strofe: “Zeza vi ca io mo esco/statte attient’a sta figliola/tu ca si mamma dalle bbone scola” si nota subito la forma ABB che è tipica e caratteristica della più autentica villanella popolareggiante del 1500». L’azione teatrale interamente cantata è accompagnata da una banda musicale e si avvale di quattro personaggi: Pulcinella, sua moglie Zeza (diminutivo di Lucrezia), la loro figlia Vicenzella e don Nicola Pacchesicco innamorato di Vicenzella. L’azione, in forma di contrasto, narra di un Pulcinella/padre che non desidera che sua figlia Vicenzella si sposi. La moglie Zeza/madre, invece, fa in modo che la figlia scambi la promessa di nozze con don Nicola. Il quale, a un’ennesima minaccia di Pulcinella/padre, ritorna armato di fucile e spara tra le gambe del suocero, costringendolo a dare il consenso alle nozze. Tale rituale rappresenta la figura di un anno: Pulcinella/padre, prossimo alla fine, cede e rassicura con un nuovo matrimonio la continuità e la ciclicità naturale e rigenerativa; racchiude tutte le caratteristiche del tradizionale maschio patriarcale geloso e incoscientemente amante della figlia. Zeza, invece, emblema della madre/fallica, risolve il dramma contribuendo alla castrazione del marito. Interessante la figura di Vicenzella che mutua il nome dal padre, Carnevale, chiamato Vicienzo nell’area culturale campana. Infatti, nel corso del funerale di Carnevale/padre, ritorna spesso un’espressione esplicativa sul carattere magico-sessuale del Carnevale/padre e sulla derivazione del nome di Vicenzella: “Carnevale se chiammava Vicienzo/teneva e ’ccoglie d’oro e ’o pesce argiento”. Nella tradizione, la figura di don Nicola è uno studente di origini calabresi. In questo senso riflette un carattere quasi estraneo al mondo di Zeza e Pulcinella e assume caratteristiche augurali sulla fertilità del nuovo anno. È egli stesso futuro padre e vendicatore di una colpa edipica sia di Pulcinella che di Vicenzella. Nell’aspetto culturale, sociale e collettivo del Carnevale s’inserisce anche una componente individuale che rispecchia molteplici tematiche condivise dalla comunità. Di particolare importanza, ai fini della comprensione della rappresentazione, è la presenza del travestimento femminile. Nel momento del tempo rituale, il travestimento concretizza l’ermafrodismo, il desiderio di diventare donna e di realizzarsi nel proprio aspetto omosessuale. Annabella Rossi afferma: «Nell’avellinese, a San Michele, frazione di Serino, la prima domenica di quaresima, giorno nel quale si celebra la morte e il funerale di Carnevale, Carnevale, simbolo dell’accumulo di tutti i mali, viene interpretato da un giovane femminella, così come negli anni precedenti era stato impersonato da un folle. L’adesione al ruolo, nei travestimenti di Carnevale, è talmente completa che, in molti casi, si può parlare di stati crepuscolari, affini alla possessione. La possessione implicante il mutamento di sesso – sempre l’acquisizione della femminilità da parte dell’uomo – è diffusa nell’area campana». Vicenzella non è solo la figlia di Carnevale, a sua volta assimilato alla figura di Pulcinella, ma è anche un doppio di Zeza come Pulcinella è un doppio di don Nicola. A tal proposito, si può notare come al Pulcinella in abito bianco si contrapponga don Nicola vestito di nero. Allo stesso modo, a Vicenzella in abito da sposa si contrappone Zeza che nelle versioni più autentiche e arcaiche indossa un abito nero. I personaggi sono dei doppi: mettono in risalto la possibilità di scambio e l’ambiguità di rapporto tra madre/figlia e tra padre/figlio. Il Carnevale costituisce lo spazio per concretizzare, attraverso l’alterazione del corpo, l’esigenza di trascendimento del margine congenito alla condizione umana. Il corpo, nella nostra come nelle altre culture, è il fulcro delle composite relazioni intessute sia con la cultura di cui è prodotto, sia con la società così come appare o vuole apparire. “La Canzone di Zeza” rappresenta dunque tutto ciò, sebbene il singolo corpo possa essere teatro di un dramma. Così Mariella Combi: «Il corpo […] esprime in modo evidente sia il sistema metaforico/metanimico, sia la comunicazione simbolica nei suoi rapporti con la parola, che rappresenta un mezzo di trasmissione dei codici di informazione e di comunicazione del sistema sociale». Dal punto di vista musicale ed esaminando la linea melodica della “Canzone di Zeza” si ravvisa, come già detto per la struttura delle strofe, un andamento e uno stile tipico del XVI secolo. Lo stilema settecentesco rappresenta quindi soltanto la testimonianza storica di un’estetica e di un mutamento che la “Canzone di Zeza” ha avuto nel corso dei secoli in Campania. Va sottolineato, inoltre, che anche le figure femminili cantano con voce maschile: questo dato, oltre che essere parte integrante della ritualità popolare, si riallaccia analogamente alla tradizione dell’opera buffa del Settecento napoletano dove il personaggio femminile è sempre interpretato da un uomo con voce di baritono-tenore. L’azione scenica è accompagnata da una banda formata da fiati e percussioni, talvolta s’inseriscono nell’organico chitarra e fisarmonica. “La Canzone Zeza” assurge a funzione liberatoria, aggressiva, nonché politica. È un moto di difesa delle collettività emarginate che combattono contro l’annichilimento del diverso da parte del potere neocapitalistico. Il Carnevale ha risentito, più di tutte le altre feste, delle trasformazioni sociali e politiche avvenute in Campania e non solo; si è trasformato in modo singolare e contraddittorio secondo i luoghi e secondo i tempi. “La Canzone Zeza”, dove non è ancora scomparsa, specie nelle zone rurali, ha mantenuto intatta la propria forma arcaico-tradizionale; laddove invece sono subentrati spettacoli presi a prestito dalla televisione, ha perso l’originaria valenza magico-rituale. Come afferma Luigi M. Lombardi Satriani: «Oggi sembra esservi sempre meno bisogno di Carnevale. Al suo posto assistiamo, invece, con segno radicalmente invertito, a sempre più intensi processi di carnevalizzazione della vita che marcano nettamente la nostra temperie culturale e politica. […] Una carnevalizzazione siffatta si svolge non nel segno di una trasgressione reale, ma in quello della banalizzazione conformistica, per cui appare fittiziamente esaltato un Carnevale sostanzialmente tradito nelle sue istanze più profonde. Quanto più clownesca la sfera pubblica, tanto più carnevalizzata la vita sociale».