Come si rappresenta la realtà senza conferire all’immagine che ne risulta l’aura di un destino oggettivo e inevitabile? Come si fa a introdurre in quella somma di passato e presente incorporata nella rappresentazione l’elemento di condizionalità e di responsabilità degli attori sociali nell’interpretare quest’ultima in un modo o in un altro? E qual è il sapere adeguato al compito di trovare risposte a questa domanda?

IN REALTÀ, in queste domande si esprime la valenza politica strutturalmente presente in ogni processo di rappresentazione del reale e che, come tale, investe ogni ambito di costruzione della conoscenza. Non a caso è stato proprio Elias Canetti – in La provincia dell’uomo – che dell’irriducibilità della conoscenza ai formati disciplinari ci ha fornito esempi insuperati, a scrivere che la «storia presenta tutto come se niente si fosse potuto svolgere altrimenti. Invece si sarebbe potuto svolgere in cento modi».
Contrariamente all’apparenza, la pagina di un quotidiano è forse lo spazio più opportuno per affrontare questioni di questo tenore.

Sia per evitare che chi scrive (e chi legge) prenda troppo sul serio le risposte che ritiene di imbastire. Sia perché si tratta di domande che interrogano tutti quanti, essendo la materia su cui esse si esercitano la capacità di critica che ciascuno di noi è in grado di esercitare, che ciascuno può coltivare o lasciare atrofizzare. Negli interstizi e nelle frizioni tra ciò che accade dentro e intorno le nostre vite, da un lato, e l’esperienza che di quegli accadimenti andiamo facendo, di cui le rappresentazioni della realtà sono componente essenziale, dall’altro, quella capacità di critica emerge ed esige linguaggi in grado di esprimerla.

Come ci ha insegnato Luigi Pintor, la consapevolezza che la pagina del giornale che stiamo scrivendo servirà il giorno dopo per incartare l’insalata al mercato, non impedisce di sollevare questioni così profonde e complesse. L’occasione per farlo ci è data dalla casuale contemporaneità della pubblicazione in Italia di due volumi.

UNA CASUALITÀ che forse, visti gli autori e la comune propensione a far esplodere il dettaglio anche apparentemente insignificante in un brulichio di sottotracce da inseguire – attraverso cui passato e presente si rimandano l’un l’altro continuamente, rivelando l’insopprimibile molteplicità dei regimi temporali che innervano l’esperienza collettiva del reale – andrebbe essa stessa indagata e raccontata. Volumi assai diversi per stile e struttura, costruiti in momenti differenti della storia contemporanea, da due intellettuali essi stessi, ovviamente, diversi, come Winfried Georg Sebald e Alexander Kluge.

AL PRIMO, più giovane dei due di dodici anni (1944) e morto in un incidente automobilistico nel 2001, si riferisce la traduzione di una raccolta di colloqui con Sebald e di saggi a lui dedicati, Il fantasma della memoria (Treccani editore, pp. 159, euro 17) che Lynne Sharon Schwartz aveva raccolto e pubblicato nel 2007 (si veda su questo giornale Francesco Baucia, 24. 11. 2019). Del secondo è stato invece (ri)pubblicato L’incursione aerea su Habelrstadt dell’8 aprile 1945 (Meltemi, pp. 138, euro 14), un testo del 1977 che a partire dal linguaggio stesso oppone una lucida resistenza – lo sottolinea anche Anna Ruchat, curatrice insieme con le studentesse delle Scuole Civiche di Milano dell’impegnativa traduzione – alle classificazioni per generi e comparti letterari (su il manifesto ne ha dato conto Micaela Latini, 03.02.2019).

In effetti, proprio questo piano, il registro linguistico e narrativo che entrambi gli autori mettono all’opera nei loro lavori, si presta ad indicarci una pista assai promettente per andare alla ricerca di risposte alle domande da cui siamo partiti. In esso si riflette l’abbandono di un osservatore onnisciente, che conferisce un ordine fatto di coerenza lineare e omogeneità evolutiva che conduce inevitabilmente da un momento passato ad uno presente. Allo stesso tempo, rifiuta l’autoillusione secondo la quale il testimone diretto (egli stesso e altri di cui ricostruisce la memoria della distruzione della città di Halberstadt) consentirebbe di superare l’aporia di quella concezione dell’osservatore.

ALEXANDER KLUGE è un poliedrico esploratore del problema della rappresentazione della realtà, ad esempio attraverso l’attività cinematografica (premiato a Venezia nel 1968 e a Berlino nel 2002; ma si veda anche l’affascinante illustrazione della sua poetica della «macchina» cinematografica in Antico come la luce. Storie del cinema, (L’orma, 2016; si veda Dario Cecchi su Alias, 19. 06. 2016) o nella progettazione transmediale che ha poi dato corpo alla mostra sulle criticità del presente The Boat is Leaking. The Captain Lied (Fondazione Prada, Venezia, 13 maggio – 26 novembre 2017), cui egli ha contribuito attraverso un montaggio di materiali storici e biografici (L’ora di Kong. Cronaca della correlazione, allegato al catalogo della mostra).

La distruzione del bombardamento è ricostruita attraverso resoconti diretti ed esperienze di chi lo subì, brani di interviste a militari che lo realizzarono, estratti di testi tecnico-militare sugli armamenti o sulle strategie di bombardamento, salti temporali e disconnessioni (ad esempio, un brano sull’attentato delle Torri Gemelle), un uso non meramente funzionale delle immagini (per evocare, per sollecitare il lettore ad immaginare egli stesso) molto simile a quello che si ritrova nei romanzi di Sebald.

In questo modo – è lo stesso Sebald a indicarlo, in un saggio sulla «descrizione letteraria della distruzione totale» molto opportunamente incluso in questa nuova edizione – la narrazione assume le forme di «uno studio pilota, grazie al quale si può imparare come l’aspetto del coinvolgimento personale nei processi collettivi possa arrivare a una definizione solo attraverso riferimenti a ciò che accadeva prima degli eventi, così come agli sviluppi successivi, al presente e alle possibili prospettive future». Una rappresentazione della realtà che opera, prosegue Sebald, facendo riemergere esperienze traumatiche rimosse attraverso il loro trasferimento «nella realtà presente condizionata dalla storia sepolta».

In questa ricerca di una rappresentazione della strutturale compresenza e interazione di passato e presente, una rappresentazione in grado di interrogare la collettività nel suo insieme, turbando l’indifferenza di superficie di «paesaggi contaminati» (questo il titolo del libro in cui Martin Pollack, Keller Editore 2016, ne scavava le tracce nella storia e nella geografia europea) da stragi e ingiustizie, troviamo la convergenza tra i due autori.

NEL RACCONTO DI KLUGE così come nelle interviste a Sebald che L. S. Schwatz ha raccolto, emerge un vero e proprio «regime di rappresentazione», per riprendere lo strumento analitico di cui si è servito David Forgacs nella sua indagine sulle rappresentazioni attraverso le quali centro e periferia si co-istuiscono (Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità ad oggi, Laterza, 2015). In esso si esplicita il rifiuto della finzione di una narrazione lineare e progressiva con cui, dice Sebald riconoscendo il proprio debito a Thomas Bernhard, lo scrittore «presenta le cose con enfasi a pagina tre e poi le manda avanti a pagina quattro, e si vede il costante lavoro dietro le scene». Quello elaborato da Sebald e da Kluge, allora, risulta forse il «regime di rappresentazione» più adeguato a narrare, con le parole di Sebald, l’«essere in preda alla disperazione» come caratteristica evolutiva della nostra specie, legata al fatto che viviamo «sul filo tra il mondo naturale da cui siamo spinti fuori, o da cui ci stiamo spingendo fuori da soli, e quell’altro mondo generato dalle nostre cellule cerebrali. Probabilmente nel punto in cui queste piattaforme tettoniche sfregano l’una contro l’altra, lì ha origine il dolore».

Nel 1997, in una intervista con Andrea Köhler (tradotta in Nuova Corrente, 2010/ 57) quel registro sembra consegnare a Sebald, con grande anticipo, la cornice più adeguata a riflettere, oggi, (anche) sull’esperienza della pandemia che stiamo attraversando: «In effetti è così: nell’attimo in cui irrompe la catastrofe la storia della civiltà viene infranta e rigettata indietro, nella storia naturale». Parole in cui risuona la lezione, fondamentale tanto per Sebald quanto per Kluge, della teoria critica di Francoforte: «ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura – scrivono Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo – non fa che sprofondare sempre più nella costrizione naturale».