«Io son l’ultimo figlio degli Elleni: / m’abbeverai alla mammella antica». Così Gabriele D’Annunzio diceva di sé, rivendicando l’eredità di Carducci, che prima di lui si era proclamato «degli eoli sacri poeti / ultimo figlio». Ma a differenza del vate maremmano, il pescarese la Grecia l’aveva conosciuta davvero, non solo attraversi i libri: nel 1895 un memorabile viaggio lo portò ad Atene, Olimpia, Delfi, Micene, Itaca. E i ricordi che ne conservò, insieme alla cultura classica che saldamente possedeva, gli fornirono lo strumento col quale intendeva dare all’Italia una identità culturale più antica di quella politica, ancora troppo recente.

Oggi ci è facile misurare quanto poco resti, al netto della retorica e delle fascinazioni lessicali, di quel tentativo, ma a un anno dalla sua morte un grande filologo come Giorgio Pasquali dava atto al poeta di avere avuto una conoscenza di prima mano della letteratura greca, e di averla intesa più e meglio di Carducci e di Pascoli, che la lessero attraverso il filtro di quella latina. Naturalmente D’Annunzio conobbe e amò anche i classici latini, che ancor meglio dei greci si prestavano alla sua agenda politica, e questo aspetto è approfondito ora in un pregevole libro di Lorenzo Braccesi, Il predatore dell’antico Incursioni dannunziane (L’Erma di Bretschneider, pp. 137, € 45,00).

L’autore, accademico di lungo corso, esperto di ricezione del classico (ha al suo attivo, tra l’altro, un accurato lavoro su Salgari e l’antico) ripropone, rivisti e aggiornati, alcuni sui precedenti contributi, con l’aggiunta di pagine inedite.

Analizzando le Laudi, il capolavoro poetico di D’Annunzio, Braccesi dimostra che in quei componimenti il connubio con l’antico non resta «un fatto esornativo ed epidermico, ma il più delle volte è un espediente per indirizzare al presente messaggi di aggressiva riscossa», rivolti a un paese prossimo a celebrare il cinquantenario della sua unità. La campagna di Libia, iniziata in quello stesso 1911, non è per il Vate una conquista, ma una riappropriazione: è lo stesso concetto che il pittore Fortunino Matania rese icasticamente in una celebre copertina che raffigura un marinaio italiano appena sbarcato a Tripoli che si reimpossessa del gladio di un legionario romano i cui resti affiorano dalla sabbia. L’«epica del ritorno» (come l’ha definita Massimiliano Munzi in un bel libro di quasi vent’anni fa) ebbe il suo fervente cantore in D’Annunzio. Nella Canzone d’oltremare una statua di Vittoria trovata l’anno prima a Ostia prometteva di «riprofondar la traccia antica» sulla quarta sponda. E il fatto che si trattasse di una Nike aptera ne faceva il simbolo perfetto della ‘vittoria mutilata’.
«La parola del passato – scrive Braccesi – altrove corredata di sacralità oracolare, è qui solo parola di propaganda e di guerra (…), in una sorta di arrembaggio perenne di triremi rostrate o di navi crociate o di galee marinare (…) sul mare nostrum». Già nel 1903, in apertura di Maia, il primo libro delle Laudi, D’Annunzio aveva scritto: «Gloria al latin che disse: “Navigare è necessario; non è necessario vivere”. A lui sia gloria in tutto il Mare!». Il poema era nato come trasfigurazione in chiave eroica del viaggio in Grecia di qualche anno prima. Ulisse che invitava il poeta a emulare le proprie imprese era il simbolo della volontà di viaggiare e di scoprire tutto ciò che era possibile conoscere. Ora però il navigare necesse significa soprattutto imporre la sovranità su un mare che ci appartiene (e nell’ottica dannunziana i diritti dei discendenti dei latini si estendono a tutta la sponda orientale dell’Adriatico), riscattare l’onta delle sconfitte coloniali e ridare all’Italia il suo posto al sole. Nella Canzone d’oltremare, osserva Braccesi, «predomina una nota di rapacità prima sconosciuta, di marca decisamente prefascista, (…) deleterio connubio tra memoria dell’antico e poesia del nazionalismo».

Gli stessi accenti si ritrovano nelle didascalie che D’Annunzio, perennemente affamato di denari, accettò di scrivere – dietro lauto compenso, appunto – per Cabiria, il kolossal che Giovanni Pastrone girò nel 1914. La colonna rostrata di Caio Duilio, già evocata nel 1911 come presagio di vittoria, torna qui come suggello del profetizzato destino: «Disarmata dalla sconfitta di Zama, Cartagine si piega al giogo inevitabile. Le navi latine rivarcano il mare dove la prima vittoria navale gridò alle acque il nome di Roma dal rostro di Duilio».

Va dato atto a Braccesi di essersi spinto con le sue ‘incursioni’ anche su un terreno meno esplorato: se i riferimenti alle vittoriose guerre puniche sono in qualche modo scontati, lo sono meno quelli alle guerre persiane. Anche la grecità fornisce in effetti al poeta materia per la propaganda nazionalistica. In Merope si celebra per esempio la battaglia di Micale, la grande vittoria navale che i Greci riportarono sui barbari sulla costa stessa dell’Asia Minore. Questa era già stata ricordata da Carducci e da Pascoli per esprimere sostegno alla lotta ingaggiata dai Greci per sottrarsi al giogo dell’impero ottomano; ma in D’Annunzio diventa, ancor più scopertamente, emblema del duello tra Europa e Asia, del cui esito non è lecito dubitare: tutto il levante mediterraneo è destinato a essere sottomesso dall’occidente, portatore di una superiore civiltà. In uno scritto del 1919 D’Annunzio ricorda che, come attesta Erodoto, a Micale la parola d’ordine dei Greci fu ‘Ebe’, ossia ‘giovinezza’, e che lo fu anche nell’impresa di Fiume. Di lì a pochi anni Giovinezza, com’è noto, sarebbe diventata l’inno ufficiale del fascismo. Un filo rosso – o piuttosto, nero – lega dunque la permanenza dell’antico all’urgenza del presente. Siamo di fronte, come sintetizza efficacemente Braccesi, a «una parallela, quanto avvolgente, aggressione al lettore sia da parte della memoria latina sia da parte della memoria ellenica». Il classico è insomma il maglio con cui D’Annunzio forgia le sue armi di propaganda, ma le faville che ne sprizzano brillano di una luce alquanto tetra.