Oggi è un giorno delicato per la Rai. La commissione parlamentare di vigilanza ascolta in audizione il presidente in pectore Marcello Foa e in serata rivota il parere sul nome avanzato nuovamente lo scorso venerdì dalla maggioranza del consiglio di amministrazione.

Farebbe bene la commissione medesima a ponderare bene le scelte. Vi è il ragionevole dubbio, infatti, che la decisione consiliare sia di dubbia legittimità, come ha nesso in evidenza Rita Borioni, componente di minoranza dell’organismo. Il rappresentante dei dipendenti Riccardo Laganà ha deciso sull’argomento un’eloquente astensione.

Il meccanismo di scelta del presidente ha nel parere parlamentare (obbligatorio e vincolante) il momento di chiusura, secondo la previsione della legge n.220 del 2015 che stabilisce un quorum di due terzi per il gradimento. Senza introdurre altri quozienti meno consistenti in successive sedute. È lecito, dunque, interpretare la norma – «speciale» , quindi asimmetrica rispetto alla routine immaginata per le società dal codice civile – come un atto unico. Non come un sistema a due tempi, il secondo dei quali ripetibile alla bisogna. Il diritto non è mai neutrale e il clima politico pesa enormemente.

Non si fa mistero del cambiamento di opinione di Berlusconi, malgrado i mal di pancia dei gruppi parlamentari di Forza Italia. La resa senza condizioni al diktat di Salvini su Foa ha origine negli interessi aziendali di Arcore. Pesano le azioni annunciate dal Mov5Stelle sui tetti pubblicitari. Il cavaliere è esposto su troppi fronti: l’andamento alterno di Mediaset, lo scontro con Vivendi, l’egemonia di Sky sullo sport, e così via. La sopravvivenza di Fininvest val bene, allora, un Foa alla Rai.

Tuttavia, la vicenda giuridica ha un’inerzia inesorabile. Nel 2005 il consiglio della Rai decideva di indicare in Alfredo Meocci il direttore generale, sottovalutando l’anomalia evidente che scaturiva dall’essere egli stato componente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. La legge n.249 del 1997 regolava il caso. E, infatti, l’incompatibilità fu acclarata nel maggio del 2006. Di conseguenza i consiglieri votanti per Meocci furono condannati ad un cospicuo risarcimento del danno erariale provocato. Il clima era banalizzante, persino con esibita supponenza.

Ora, su una vicenda diversa ma contigua, gli amministratori rischiano di vedersi coinvolti in un’azione giudiziaria. C’è da augurarselo per il servizio pubblico? No di certo. Anzi. I cinquanta giorni trascorsi nell’inerzia dopo la prima «stecca» hanno ulteriormente indebolito l’azienda di viale Mazzini.

Il quadro del sistema radiotelevisivo è in rapido mutamento. Le reti del gruppo Mediaset stanno cercando di affrancarsi dall’epoca della «gloriosa» Retequattro e da quella recente dei talk del populismo urlato.

La7 si destreggia con abilità e viene vissuta da parti consistenti degli utenti come il vero servizio pubblico. La Rai, ferma e in affanno, appare ormai come una costola del governo: il luogo dell’eterna lottizzazione.

Ecco, allora, che il tema della presidenza si carica di simboli persino superiori al valore effettivo.

Le conclamate simpatie putiniane di Foa, accompagnate a un malcelato sovranismo rendono la scelta assai opinabile, essendo per di più la funzione «di garanzia». Tanto di garanzia che l’interprete designato ha polemizzato con il massimo garante, vale a dire il presidente della Repubblica. Intendiamoci. Ognuno può esprimere le opinioni che crede, ma non si candidi al ruolo apicale di un bene pubblico. Si gioca una partita seria.