Nel discorso introduttivo tenuto sabato scorso all’assemblea nazionale del partito democratico Matteo Renzi ha parlato – ed è stato più di un cenno – della Rai. Il tema si è risvegliato soprattutto per il taglio chirurgico di 150 milioni di euro imposto dal decreto Irpef. Con il caldo invito a cedere quote del gioiello di famiglia “Rai-Way”. Era mancata finora, però, un’indicazione chiara che toccasse il medio e il lungo periodo. C’è stata.

Il servizio pubblico ipotizzato dal presidente-segretario interpella nuovi e impegnativi traguardi educativi, secondo la grande tradizione impersonata dal maestro Manzi, simbolo di una stagione che fu: bella e (oggi) impossibile. Le agenzie formative sono diffuse e intricate nella e con la rete, tanto da rendere difficile una ricomposizione unitaria dei contenitori.

Ciò non significa, ovviamente, che l’aspetto didattico non stia nel cuore del servizio pubblico. Tuttavia, il risultato si raggiunge se l’offerta è vasta e plurale, si incammina sui diversi sentieri del sapere, che non si incarnano in uno specifico «format». Anzi, proprio il valore di «Rai educational» in tanto si può esprimere, in quanto appartiene ad un palinsesto vario e complesso.

Nell’ascoltare Renzi veniva in mente il canale pubblico degli Stati Uniti Pbs – di qualità, ma marginale – piuttosto che il servizio pubblico della tradizione europea: dalla Bbc del Regno Unito, all’Ard tedesca, a France Télévisions, alla stessa Rai. Vale a dire la ricerca della qualità, ma non cedendo lo scettro della fruizione e dell’industria culturale al settore privato. Certo, quel modello si è logorato, come è in difficoltà l’intera cultura del Welfare di cui è stato una parte cruciale. Lo spartito della nuova riforma –questa sì urgente e indifferibile- deve partire dalla parte alta e migliore dell’esperienza dei broadcaster pubblici, non dall’improponibile sistema degli Usa a dominante commerciale.

Via i partiti, certo. E via altrettanto lobby e salotti, amicizie e appalti inutili. Il servizio pubblico dell’era digitale e cross-mediale è una piattaforma aperta e neutrale che permette ai cittadini di accedere al progresso tecnologico in modo egualitario. Non secondo la via facile e redditizia della «pay tv». È un vero, affascinante, bene comune.

La riforma manca da quarant’anni. Troppe ipocrisie, violenti ostruzionismi e molta incoscienza hanno bloccato il riordino dell’anima pubblica del sistema. Non per caso. Si chiama «conflitto di interessi». Una Rai dominata, subalterna e immobile era il prezzo del compromesso penoso con il berlusconismo, di cui Mediaset costituiva la roccaforte. Ecco: una reale riforma non sarà mai davvero praticabile se eluderà l’abrogazione della legge Gasparri e la risoluzione del conflitto di interessi.

Ora pare muoversi qualcosa, dopo anni di boicottaggio. Il governo parla di una consultazione di massa per definire i caratteri del futuro servizio pubblico. Un’ottima idea, su cui certo non c’è copyright. Tuttavia, è utile ricordare che la consultazione è stata lanciata proprio un anno fa – a partire dalle scuole – dall’associazione Articolo 21, d’intesa con il ministero dell’istruzione. E il Move On ha lavorato per due anni ad un progetto di coinvolgimento dei cittadini nella governance della Rai.

Cittadini, appunto, non tele-corpi. Che il canone, poi, sia inserito nella dichiarazione dei redditi, con una consistente quota di esenzione per le aree deboli della società. Chi può, invece, paghi di più. Insomma, per uscire dal giogo della politica serve una linea politica.