Il rapporto tra opportunità di vita e qualità della stessa si presenta contraddittorio fin dagli anni Settanta quando, come ricostruisce Stefano Fassina nella prefazione al libro di Aldo Carra Più uguaglianza, più benessere. Percorsi possibili in tempi di crisi (Ediesse, pp. 156, euro 12), emergono i limiti di uno sviluppo che, pur in forte crescita produttiva, è incapace a rispondere alla domanda di maggiore qualità del lavoro e di estensione del welfare. Il volume sarà presentato oggi a Roma da chi scrive, Stefano Fassina e Norma Rangeri in un incontro con l’autore (appuntamento alle ore 18 alla chiesa valdese, Via Marianna Dionigi 59).
Il «ben-essere» (well-being) al quale si riferisce Carra non è la soddisfazione dei soli bisogni personali con beni di mercato, e servizi pubblici, ma anche delle esigenze che attengono alla realizzazione personale e sociale degli individui e, in questo senso, si contrappone al Pil quale misura dei risultati economici di un paese.

Il well-being incontra un limite nel modello produttivo esistente per la subordinazione che impone al lavoro e per le disuguaglianze che genera nella società. Keynes aveva visto giusto nel prevedere l’enorme crescita della produttività del XX secolo, ma non aveva visto giusto nel ritenere che, appagati i bisogni primari, ci sarebbe stato tutto lo spazio per soddisfare le necessità di più alto livello. Le cose non sono andate così; il sistema capitalistico, per non intaccare il suo assetto sociale, ha accompagnato la sua crescita con la trasformazione dei modelli di consumo inducendo i bisogni necessari all’assorbimento dei «suoi» prodotti in un circuito «infernale tra sviluppo che genera bisogni e ricerca di soddisfazione dei bisogni che genera sviluppo».

Il grande inganno

Per quanto sia importante avere un’occupazione, essa non è tuttavia sufficiente per la realizzazione delle persone; il loro benessere non è favorito se le esigenze produttive impongono condizioni squilibrate di sovraoccupazione che costringono a una «rincorsa permanente» a maggiori consumi o a condizioni di sottoccupazione che deprimono la qualità della vita. Entrambi i casi penalizzano le attività relazionali che possono mettere in discussione «i ruoli sociali, la separazione tra lavoro produttivo e lavori domestici e di cura, la relazione tra tempi di vita e di lavoro». Per contrastare la perdita di valore del lavoro è necessario pensare (sono citati Pierre Carniti e Bruno Trentin) alla riduzione degli orari e alla redistribuzione del lavoro in un’ottica «di lavorare meno per vivere meglio». Stefano Fassina ricorda opportunamente nella sua prefazione le parole di Pietro Marcenaro che sosteneva una redistribuzione del tempo di lavoro capace di tener conto della «disponibilità differenziata verso il lavoro e dei diversi bisogni di reddito» in modo da comprendere «l’organizzazione dell’insieme delle scelte di vita di una persona». Prospettiva che, intrecciata a quel reddito minimo garantito auspicato dall’Unione Europea, darebbe sostanza a progetti di «lavoro di cittadinanza attiva».

Una realtà di «minori occupati che lavorano di più» genera una sistematica disuguaglianza che, come esplicita il titolo (Più uguaglianza, più benessere), costituisce un vincolo all’opportunità di scelta della propria vita. Carra parla giustamente, a questo proposito, di «grande inganno» perpetrato da quegli economisti che teorizzano che la disuguaglianza faccia bene; che il mercato premia il merito; che privilegiare l’utilizzo dei pochi che dispongono di maggiori risorse fa «sgocciolare» reddito e opportunità su coloro che non ne sono dotati; che l’esclusione dei molti è giustificata, anzi auspicata per la maggiore «efficienza» dell’economia, dato che i costi sociali e personali dell’esclusione (disoccupazione e precarizzazione) non sono costi economici (da includere nel Pil).

La classe dirigente non riesce solo a creare regole funzionali ai suoi interessi, ma anche a convincere che i rapporti da lei imposti rispondono alle esigenze dei loro subordinati; accettare la «predicazione della disuguaglianza come valore positivo» significa ratificare di fatto la vittoria culturale dell’individualismo, consumismo, liberismo. Si può uscire da questa trappola solo proponendo una politica alternativa che abbia nel lavoro il segno tangibile dell’uguaglianza e della libertà. In questa tensione etico-religiosa – i riferimenti a papa Francesco e al pensiero cattolico e socialista sono frequenti – si colloca la proposta «minimalista» di Carra per «convincerci e convincere» che l’uguaglianza è oggi possibile e necessaria e che per raggiungerla non vi è bisogno di obiettivi radicali di rivolgimento, ma percorsi che la ricostruiscano «a partire da tutti gli aspetti della vita quotidiana delle persone».

La ricerca di Carra si appoggia sulle analisi, e sugli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (Bes), elaborate dalla Commissione Istat-Cnel alla quale ha partecipato come membro. Sulla base dell’architettura del Bes, egli individua gli obiettivi volti a contrastare le molteplici situazioni di disuguaglianze che si presentano nei microcontesti sociali, familiari e culturali della vita quotidiana. I settori del lavoro, del benessere economico, della salute e dell’istruzione sono quelli nei quali più forte è l’incidenza delle disuguaglianze e sono quindi i campi sui quali si concentra la sua attenzione e la sua proposta di microprogetti che viene sviluppata adottando tre chiavi di lettura delle disuguaglianze (di genere, di generazione, territoriali).

Un problema di governo

Carra assume che disuguaglianza e benessere sono una rilevante questione nazionale, così come rilevante è l’idea di una sua gestione settoriale. È una proposta che, richiedendo una testa centrale e gambe locali, fa emergere il nodo politico di una politica economica progressiva.

Nel libro l’azione pubblica fa riferimento a una testa, a un governo nazionale, che non sembra avere tra i suoi obiettivi quelli auspicati e a gambe, gli enti locali, non sempre dotati di adeguate competenze e volontà (Fabrizio Barca potrebbe meglio qualificare questo aspetto) e tanto meno autonomia finanziaria; non meno secondario è il contesto culturale che falcidia tutte le proposte non conformi all’esistente visione di politica economica. Ma, se non si accetta l’egemonia politica e culturale dominante, come non l’accetta Carra, l’ambizioso progetto del libro richiede di trovare teste e gambe in grado di dare una risposta positiva all’aspirazione di più uguaglianza e più benessere; in sostanza, il nodo è come e dove sono i poteri, le forze (sociali, politiche, di movimento) capaci di mobilitarsi, all’interno di una visione globale, in uno sforzo comune per più uguaglianza e più benessere?