Se esiste una categoria di oggetti (culturali) che sembra non avere bisogno di definizioni, il jazz ne fa sicuramente parte. Sì, perché il jazz è come la popular music, un termine ombrello che tutti pensano di conoscere e di sapere che cosa sia e cosa stia a indicare, ma che raggruppa una varietà di materiali (in cui il jazz può rientrare o no, a seconda se si considera o meno il termine «popolare» o «popular» nelle sue accezioni commerciali o tradizionali), che abbraccia al suo interno anche significati contraddittori. Tanti sono gli sconfinamenti e le sovrapposizioni tra i due poli del colto e del popolare, nella storia del jazz, gli stili e le tendenze che vengono rivendute come jazz tout court. L’idea qui è di considerare il jazz come un idealtipo, nel senso in cui lo usava Max Weber. Essendo il «tipo ideale» un concetto, e non una definizione, in quanto tale è perfettamente in grado di far coesistere le contraddizioni nel tentativo di rendere conto del suo oggetto. Se assumiamo il jazz in tal senso per indagare un dato fenomeno musicale, è possibile tenerlo come categoria funzionale nel sottolineare quelle connessioni che ci sembrano importanti.
IN FERMENTO
A partire dagli anni Ottanta la scena jazz anglosassone è stata attraversata, a piccole ondate, da idee e ispirazioni che nascevano da un movimento di apertura e di eclettismo. Per questi musicisti il jazz non era solo musica da ascoltare nella solitudine della cameretta, con un bicchiere di brandy in mano o nei club esclusivi ma concepito come musica da ballare capace di incrociarsi con le altre forme contemporanee della musica nera e le radici africane. Sul finire della decade, l’elettronica, il soul, il funk e moltissimi altri elementi hanno fatto il loro ingresso sulla scena e sono stati incorporati dentro una matrice originaria che ha dato vita ad una intrigante fusione acid jazz. Quei semi stanno vivendo oggi una nuova fioritura e la scena jazz inglese sta attraversando una fase di rinascimento molto più aderente a una prospettiva extra-generis e di contaminazione, nell’ottica di uno spontaneo e sempre più pronunciato onnivorismo orizzontale, che ha dunque al suo interno proposte parecchio differenziate. Ciò grazie a una pattuglia di giovani talenti – il range d’età si aggira tra i venti e i trentacinque anni, solo qualcuno è intorno ai quarant’anni – usciti da «Tomorrow’s Warriors» e da altri corsi che promuovono una formazione jazz non convenzionale.
NEW WAVE
Osservato da una prospettiva di genere, il contributo della creatività femminile rappresenta un marcatore altamente distintivo di questa new wave. Prendiamo la sassofonista e compositrice, Nubya Garcia. Classe 1991, origini a Trinidad e in Guyana, si appassiona alla musica sin da piccola spronata dai genitori. Il suo faro è John Coltrane, anche se si rammarica di non avere un modello femminile a cui ispirarsi. Su questo presupposto ha fondato un quartetto di cui è leader, con alcuni dei musicisti più dotati di questa nuova ondata: Joe Armon-Jones (piano/Wurlitzer), Daniel Casimir (contrabbasso), Femi Koleoso (batteria), e poi c’è lei al sax tenore con il suo fraseggio soffice e riflessivo. Ha all’attivo due ep autoprodotti, Nubya’s 5ive (sotto licenza Jazz: Refreshed) e il recentissimo When We Are, dove si mescolano jazz modale, ricerca post bop e esplorazioni free progressive. Ma suona qua e là con gli amici, alcuni altolocati, e in diverse formazioni: dal collettivo spiritual jazz Maisha al settetto femminile Nérija (in cui è stato accolto di recente il contrabbassista Rio Kai, primo musicista di sesso maschile a entrare nella band) formato con altre esponenti della nuova scena londinese come la chitarrista Shirley Tetteh, l’alto sax Cassie Kinoshi e la trombettista Sheila Maurice Grey (vedi intervista accanto). Il loro ep eponimo del 2016 è stato ristampato di recente su vinile dalla Domino.

Il settetto femminile Nérija

Di origine giamaicana, Zara MacFarlane è una vocalist incantevole. Timbro luminoso, in questo caso i modelli femminili non mancano e nella sua vocalità aleggiano lo spirito raffinato di Sarah Vaughan e l’anima soul di Nina Simone, ma la giovane cantante dimostra anche una solida conoscenza della musica caraibica. Ha pubblicato tre album con la Brownswood di Gilles Peterson, di cui l’ultimo Arise, del 2017, realizzato con i migliori musicisti della scena (Moses Boyd alla batteria, Binker Golding al sax, Shirley Tetteh alla chitarra, Peter Edwards al piano, Nathaniel Cross al trombone, e per l’occasione, Shabaka Hutchings al clarinetto basso), è il più politico e propone una sua personale visione del concetto di Black Atlantic e dell’eredità african-caribbean, discostandosi musicalmente dalla struttura del jazz tradizionale per recuperare l’elemento ritmico della musica caraibica di tradizione orale (kumina, nyabinghi). Di recente ha pubblicato un ep, East of the River Nile con Dennis Bovell che contiene quattro versioni del capolavoro del maestro del dub, Augustus Pablo filtrate dai suoi scat vocali.
ALTER EGO
Radici in Bahrein per la trombettista e flicornista Yazz Ahmed, classe 1983. Ancora una volta, i suoni della diaspora irrompono vigorosamente nel tessuto sociale britannico come parte integrante della sua cultura (nazional)popolare, che non è mai stata unicamente bianca e anglocattolica come spesso si tende a rappresentare, Yazz Ahmed compie un’esplorazione della sua doppia identità arabo-inglese nel suo album di debutto, del 2017, La sabouteuse: la sabotatrice è il suo alter-ego,un’antimusa che combatte contro i propri demoni. Padre ingegnere del Bahrein, mamma ballerina inglese, la passione per la tromba l’ha ereditata dal nonno materno, Terry Brown (membro dei Rush) che le ha trasmesso anche l’amore per il folk autoctono che lui le suonava da bambina e già che c’era ha preso in mano anche il flicorno. La sua musica combina l’impronta elettrica davisiana con le scale arabe. Jazz mediorientale, futuristico e dal forte appeal.
Anche Emma-Jean Thackray suona la tromba e un ampio spettro di strumenti. È compositrice, bandleader, cantante e speaker radiofonica. Lei è dello Yorkshire, profondo Nord dell’Inghilterra, e ha debuttato all’età di tredici anni con la Tingley Brass Band, una tipica banda della working class bianca, dove suonava principalmente la cornetta. È stata allieva del pianista Keith Tippett che le ha trasmesso il gusto per la libertà dell’improvvisazione. Con questo approccio Thackray è passata disinvoltamente dalle jam session al Total Refreshment Centre (uno spazio underground della East London) alle commissioni realizzate per la London Symphony Orchestra. La musica di Emma-Jean è stata definita come un ponte tra Ornette Coleman e Madlib. In un’intervista ha dichiarato, in effetti, che il suo approccio alla composizione si ispira molto al Madlib di Yesterdays Universe; ciò che ha cercato di fare nel suo secondo ep, Ley Lines, pubblicato per la Vinyl Factory ma realizzato in totale etica «diy», è infatti impersonare vari personaggi suonando i vari strumenti, sulla falsariga del progetto di Madlib, come se fossero varie parti di sé stessa coesistenti nell’unicum delle sette tracce (più outro). Psychedelic jazz? Chiamatelo come volete, ma tenetela d’occhio.
SCOMMESSE
Dal nord al sud dell’Inghilterra, da dove proviene un’altra scommessa di questa nuova ondata britannica, Laura Jurd, classe 1990, su cui ha puntato anche Dave Douglas che molto ha insistito per averla al (suo)ultimo Bergamo Jazz Festival. Folgorata come Emma-Jean da Miles Davis, ha cominciato a suonare la tromba. Si sentono, in particolare, le influenze del Davis elettrico nelle composizioni di questa dotata musicista, compositrice, improvvisatrice, che dal 2010 guida il super-quartetto, Dinosaur, formato da Elliott Galvin (tastiere e synth), Corrie Dick (batteria), Conor Chaplin (basso) e la formazione orchestrale, Chaos Orchestra. Wonder Trail (Edition Records) è l’ultima pubblicazione di Jurd, la seconda sotto il marchio Dinosaur, in cui la trombettista dell’Hampshire, perfeziona la sua ricerca di un bilanciamento tra melodia e dissonanza.
Tamar Osborn imbraccia il suo sassofono (ne suona di tutti i tipi, compresi altri fiati e aerofoni come il clarinetto basso e il flauto alto) alla guida dei Collocutor, formazione a geometria variabile da quattro a sette/otto elementi formato dalla leader, Suman Joshi (basso), Marco Piccioni (chitarra), Maurizio Ravalico (percussioni), Mike Lesirge/Josephine Davies (sax tenore), Simon Finch (tromba), Magnus William Mehta (percussioni), incensata persino da Mulatu Astatke. Da Yusef Lateef, Joe Henderson, Alice Coltrane, i Collocutor conducono in una dimensione da cui non si vorrebbe più tornare indietro.