Lucia Ottobrini era stata una protagonista della Resistenza armata, ma non aveva voglia di parlarne. Io passavo lunghe ore a casa sua intervistando suo marito Mario Fiorentini, come lei combattente nei Gap, e lei si aggirava silenziosa e gentile, offrendo ora un caffè, ora un bicchiere d’acqua, sorvegliando e moderando il flusso narrativo inarrestabile di Mario con le parole («Mario, dai, smettila. Sì, è necessario, bisogna dire le cose, però…») e soprattutto con lo sguardo – una comunicazione ironica e amorosa come solo settant’anni di matrimonio e di amore immutato dal primo giorno possono rendere possibile. Perché la Resistenza è stata anche questo, anche storie d’amore.

Solo una volta si lasciò andare. Era entrata col caffè sulla guantiera, Mario le chiese di ricordargli un nome, e da lì partì una conversazione che durò quasi un’ora, lei sempre in piedi col vassoio, come per dire che non si stava realmente lasciando intervistare, io affascinato con la tazzina che mi si raffreddava in mano. Come un controcanto al racconto eloquente, epico e sacrosantamente orgoglioso di suo marito, le parole di Lucia furono una profonda lezione sui dilemmi e le sofferenze della moralità nella Resistenza. Raccontata – per dirla con Carla Capponi – con cuore di donna, e di donna intrisa di una profonda, autentica, libera spiritualità.

«La guerra è guerra, c’è poco da fare. Ricordo sulla via Empolitana i camion pieni di ragazzini che tornavano a casa e cantavano ‘in die Heimat, in die Heimat, es wird besser gehen’, a casa, a casa andrà tutto meglio». Lei quei camion li ha attaccati con le armi in mano e li ha fatti saltare in aria. «Sono cose che non passano mai. Io li ricordo sempre, per tutta la vita. È un dolore, una cosa tremenda, terribile, glielo posso dire. Per me anche un nemico era un uomo. E mi dispiace infinitamente, tanto. E sono cose molto amare e probabilmente a me mi ha proprio un po’ bollato. Intanto mi ha fatto maturare molto, non mi sento innocente, nessuno è innocente e nessuno può darsi a colpevole».

Ricordo il partigiano ternano Dante Bartolini, uno dei cantori epici e spietati delle glorie combattenti della Resistenza, che pure quando racconta dei camion e dei blindati tedeschi incendiati ricorda anche che «ci stava la povera gente là dentro che non poteva uscire». Anche il nemico è un uomo, anche le vittime nemiche sono povera gente. In questi apparenti scarti narrativi sta la grandezza morale della Resistenza: nella capacità di non dimenticare l’umanità del nemico, di rendersi conto non solo delle sofferenza patite ma anche di quelle inflitte, e di soffrire anche per questo. Forse il sacrificio più grande che hanno offerto tanti partigiani è stato quello di fare violenza per necessità alla loro stessa natura, di sospendere per la nostra libertà una parte della propria stessa umanità lottando al tempo stesso per non dimenticarla e non trasformarsi nell’anima (come diceva l’altra gappista romana Marisa Musu) in «portatori di morte». Questa è una delle cose che li rendono diversi dai loro avversari, che invece della morte avevano il culto.

Forse il momento più alto di tutti racconti partigiani che ho sentito sta in questo scambio con Lucia:
Lucia Ottobrini. Durante la Resistenza io pensavo: è come se trasgredissi, mi vergognavo di rivolgermi a Lui. È stato un periodo diverso.
Portelli. Sentiva di fare una cosa che andava fatta ma Cristo non l’avrebbe approvata.

Lucia. Dopo, nella miseria, in tutte quelle tribolazioni, nella morte, nella guerra io il Cristo l’ho ritrovato in pieno, sempre rimuginando, ripensando: io di queste cose a chi ne parlo? Quando leggo tutte queste testimonianze, o io sono un po’ matta o io sento in maniera diversa, a me non mi va di raccontarle queste storie.

«Io di queste cose con chi ne parlo?» Per tutta la vita, Lucia ha pregato, dice suo marito Mario, che quella fede non condivide ma la ammira. C’era pena nel ricordo e nel racconto, che non per caso sgorga incontrollato nei momenti di sofferenza più intensa, evocando sotterranee associazioni con altre esperienze di morte. «Io ebbi un momento – non di depressione, qualcosa di peggio, quando mi è morto il figlio», ucciso da una macchina vicino casa. «Cercavano di consolarmi e io ho cominciato a parlare, parlare, parlare – avrò parlato per due ore e, caso strano, parlavo della Resistenza. Non so come sono andata a parlare di questo, è stata una mia debolezza, perché pensavo a mio figlio: perché sei morto? Me l’hanno ammazzato per strada – e io dico: come è possibile?».

Il paradosso è che la normalità in cui è possibile tornare a rivolgersi a Cristo è ristabilita proprio grazie alle azioni compiute nella Resistenza, in quel «periodo diverso», trasgressivo, innominabile e tuttavia incancellabile, negato e rivendicato, problematico e glorioso. Perciò: anche in Lucia, sofferenza, ma nessun pentimento. Semmai, un intreccio di pena e orgoglio che lei condivideva, sia pure in gradi e forme diverse da una persona all’altra, con tanti altri (e soprattutto altre) protagonisti e protagoniste della Resistenza. «Venni decorata con la medaglia d’argento da Taviani, allora ministro della Difesa. Stavo insieme a due ufficiali dell’aviazione. Mi prese per la vedova di un combattente e mi disse gentilmente, ‘lei, signora, è la moglie?’ Pensava che fossi la vedova del decorato, che quello fosse morto. Gli feci, ‘guardi, la decorata sono io’».