Lei si chiama Anima in pena, ammazza le domeniche di ansia a letto con le briciole di Gentilini, e nel viavai tra Terracina, il luogo dell’infanzia e Roma medita su cosa significa crescere, sulla solitudine, sui traumi e l’inadeguatezza di fronte alla vita. N-Capace, esordio al cinema di Eleonora Danco, autrice e attrice di teatro e per la radio arriva in sala – non perdetelo – dopo la rivelazione (applauditissimo) al Festival di Torino, dove era in concorso, e molti premi tra cui la nomina a film dell’anno del Sncci – il sindacato dei critici italiani. Rivederlo a distanza di qualche mese lascia intatta la magnifica sorpresa della prima visione, e anzi spalanca nuovi possibili itinerari di lettura. Perché N-Capace è un film di libertà geometrica, e di continua invenzione, che spiazza lo sguardo nel modo di raccontare, e costruire gli spazi e i rapporti con gli universi di fronte ai quali si pone. E anche se la regista ne è interprete, punto di vista e riferimento narrativo in una scopertissima autofinzione, non è soltanto un film alla prima persona.

 
Danco che dice di essersi ispirata ai surrealisti, a Giotto, a De Chirico e a Bunuel, libera una tensione in cui la cui verità della scrittura visiva passa attraverso la fisicità dei corpi. Una fisicità performativa e di primi piani, di sguardi e di conflitti, con la macchina da presa che incalza i personaggi, e la regista stessa, cercando il punto di rottura di un sentimento fragile nel quale tutto è lecito e ci si può credere, anche che a Terracina ci sono i licantropi. Lei intanto come una maga mescola frasi, imbarazzi e confessioni con umorismo, autoironia, dolorosa consapevolezza. Scompone, ricompone, complici la libera precisione del bel montaggio di Desideria Rayner, e l’eccentricità elettronica delle musiche di Markus Archer; confonde memorie e tracce di una città che non c’è più, Roma, e di cui odia le mutazioni, scruta la spiaggia dove da bambina aspettava il permesso della mamma per fare il bagno.

 
Picconatrice su un letto bianco provoca, mette all’angolo, ci fa ridere di impacci e di luoghi comuni con le sue domande sul sesso, sul piacere, sulla prima volta, sull’amore, sui sogni per il futuro, tracciando la linea di un paesaggio umano che divide a metà. Da una parte il presente degli adolescenti, dall’altra la memoria degli anziani. In mezzo c’è solo lei, unica adulta, che oscilla con i suoi ricordi e con le sue angosce. Eccoci dunque tra i ragazzetti per i quali le donne sono tutte un po’ troie, e una donna che gode va bene per divertirsi ma non per sposarsi. E studiare è noioso specie se ti sei iscritta alla scuola di parrucchiera come Maria, e i libri come gli altri sedicenni tra la piazzetta di Terracina o nelle periferie romane non li leggono più. C’è chi si pensa idraulico o pizzettaro e se votasse non ci andrebbe: «Morissero tutti». E chi mangia tantissimo e mangiare è una delle tre cose più belle della vita insieme a scopare e a cacare. Agli anziani chiede della loro giovinezza, sono donne e uomini nella campagna e negli appartamenti, le loro storie raccontano fidanzati e mariti violenti, padri autoritari, fatica, chi come Amelia a sei anni raccoglieva le olive ed era un gioco. Il sesso lo dovevi scoprire da solo, e le braccia nude erano vietate. Sono storie, vissuti, lei ascolta, non giudica: i suoi personaggi li avvicina con discrezione, nell’inquadratura frontale lascia affiorare la realtà.

 
Al centro di questa sfida c’è il corpo a corpo tra la regista e suo padre, motivo che tiene insieme tutto, da cui partono e dove ritornano le altre storie. Di cosa parlano i due? Della mamma che è morta anni prima, dell’infanzia e dei tabù: dimmi se avevi avuto rapporti prima della mamma incalza la regista. O: perché quando in televisione quando c’era la pubblicità dei tampax cambiavi canale? L’uomo a differenza degli altri rifiuta di rispondere i perché è sua figlia, e l’intimità perciò è impossibile. Ma lei non si arrende, lo provoca sulla solitudine e sui ricatti affettivi, ed è in questo spazio che si manifesta la tensione della realtà, come se il conflitto padre/figlia si trasformasse nel conflitto delle immagini tra l’occhio di chi filma e chi è filmato dichiarandone la messinscena e la profonda verità.

 
«Dì che sono un’anima in pena», grida all’uomo Eleonora. Non posso, non voglio replica lui. E le resiste, si sottrae, sceglie il silenzio. Ma è il mio film, me lo rovini devi dire questo e quello insiste lei, devi dire che sono una incapace, che non ho combinato nulla; non lo penso dice lui, e lei scopre di nuovo la finzione, la rivela per attirarlo nel suo gioco. Così, messo in difficoltà, è costretto a ammettere che in fondo preferisce vivere con la badante che con quella figlia martellante nella casa in cui entrambi all’improvviso appaiono come degli astronauti.

 
Questo entrare e uscire dal bordo delle immagini ( della vita?) è forse la cifra più forte del film le cui determinate improvvisazione mettono alla prova le nostre abitudini di spettatori un po’ come tutti i personaggi. E però non si può che seguire questa flaneur vagabonda, nuda o vestita di bianco, nei suoi contorcimenti rabbiosi e insieme pieni di malinconia, che infine ci parlano di noi e di un tempo collettivo, in quella forbice tra vecchiaia e adolescenza, lo spazio del possibile e del tutto è accaduto, dei sentimenti palesi e in cui ancora rimane un lato di mistero. Il cinema nasce lì.