La prima immagine che ho di Agnès Varda è il volto pallidissimo di Sandrine Bonnaire/Mona, solitudine rabbiosa sulle strade della Francia, in quello che è ancora oggi l’unico film punk d’oltralpe: Sans toit ni loi, Senza tetto né legge, l’attrice che poi sarebbe divenuta un’icona fuoriclasse non aveva neppure vent’anni, nel 1985 il film aveva vinto il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. Ce ne saranno altre, sparse dentro e fuori lo schermo, il cortile di rue Daguerre, nel 14° arrondissement di Parigi, dove Varda ha sempre abitato con gli amatissimi gatti, dove c’è la sua casa di produzione, la Ciné-Tamaris e dove sembrava si incontrassero tutti i suoi mondi poetici in una corrispondenza tra dentro e fuori, intimità e dimensione collettiva che nella sua opera convivono con piena libertà.

Era l’anno dell’installazione alla Fondation Cartier, vicinissima a casa sua, L’ile et elle (2006), quasi un bricolage di vita vissuta in cui Varda rompeva con grazia i confini spaziali dell’immagine: le vacanza a Noirmautier e le vedove del villaggio, tra cui lei stessa, il lutto e la gioia dei ricordi negli oggetti un po’ infantili e colorati dell’estate, il mare che amava, la spiaggia che affiorava con la marea per poi sparire di nuovo, la cabana costruita con i pezzi di pellicola, i pescatori che lottavano per non essere sommersi dalle nuove economie.

IN QUELLO che è divenuto il suo saluto al mondo, Varda par Agnès – visto all’ultima Berlinale – la cineasta torna insieme a Sandrine Bonnaire suoi luoghi di Senza tetto né legge, nel suo personaggio la regista mostrava, ancora una volta, una ribellione al femminile così come qualche anno prima aveva fatto in L’une chante, l’autre pas (1977), la battaglia di due donne, due amiche, contro i ruoli imposti dalle società del patriarcato, dentro e fuori casa. Ma lì era una ribellione collettiva tra gli anni Sessanta e Settanta dei movimenti femministi e per i diritti – Varda era stata tra le firmatarie del «Manifesto delle 343», nel ’71, per la legalizzazione dell’aborto – mentre nella giovane donna di Senza tetto né legge era divenuta solitaria.

Quella campagna francese, una periferia di provincia, somiglia però alle cittadine che Varda attraversa insieme a JR in Visages/Villages, e prima ancora in Les glaneurs et la glaneuse (2000) dove filmava la povertà nei margini della Francia. È che i luoghi, sempre un po’ anche sentimentali, sono un punto di partenza della sua opera, ciò che le permette di muoversi senza autocensure, di utilizzare come un’artigiana un po’ maga le stesse immagini più volte senza snaturarne l’essenza, di mischiare, giocare, tagliuzzare, ricreare lasciando la sua impronta ben visibile nella cura e nell’amore verso ogni dettaglio senza mai arroganza.

La sua rue Daguerre e la Los Angeles delle Black Panther e di Lions Love (1969), la spiaggia di Agnès, a Noirmoutier, il Garage Demy (1991), l’amore, la vita, la scoperta, il femminismo, la politica, ogni elemento trova il suo posto, afferma un’idea di cinema che non si serve dell’ideologia nemmeno quando la proposta è più evidente – come appunto in L’une chant, l’autre pas o in Reponse des femmes, notre corps, notre sex (1975). È questo modo di essere – e di fare cinema – che la rende unica, che le ha permesso di trovare a ogni passaggio il giusto punto di vista per confrontarsi col mondo, con le tecnologie, con le forme. La stessa energia con cui aveva realizzato il primo film, La Pointe courte (1955), lei che aveva avuto fino allora pochissimi rapporti col cinema, l’aveva portata poi a unire finzione e documentario e a confrontarsi con la dimensione installativa, a partire dal 2003 quando viene invitata alla Biennale Arte di Venezia, e presenta un’opera realizzata con le sue amatissime patate (a forma di cuore) che rimandavano a Les glaneurs et la glaneuse.

LA SETTIMANA scorsa Varda era in sala, a Parigi, per presentare Varda par Agnès al festival del documentario Cinéma du Reel, il caschetto bicolore, lo sguardo luminoso, sembrava come sempre perché anche se aveva novant’anni era una di quelle figure che pensi non possano scomparire mai… Il film è apparso subito come un «testamento», e in un certo modo lo è, ma la lezione di cinema con cui ci rivela il suo laboratorio di artista è qualcosa di vivo, un patrimonio da cui trarre ispirazione senza che il tempo possa impolverarlo. Fare film nel suo racconto è un’avventura irriverente, per lei lo è stata ancora di più perché era donna e in un mondo di maschi, che pure se si chiamavano Truffaut o Godard non erano tanto diversi nel pensare che il cinema come la critica non era affare di femmine.

Però non si lamenta, anzi fa della sua posizione una forza ironica, spavalda, tenace. È l’unica donna della Nouvella Vague, ne diventerà la «nonna» definizione che la faceva ridere, lei che alle etichette si è sempre sottratta, sa usare l’indipendenza a partire da quella cifra «artigianale» che sarà sempre una caratteristica forte del suo lavoro .

Agnés Varda era nata a Ixelles, il 30 maggio del 1928, belga come l’altra stupenda ragazza del cinema Chantal Ackerman. I genitori la chiamano Arlette, lei cambia il nome da adolescente per una idiosincrasia con il suono in «ette». Da ragazza studia arte a Parigi, inizia a lavorare come fotografa al Theatre populaire di Jean Vilar che aveva appena fondato il Festival di Avignone, nella sua vita aveva visto pochissimi film tanto che quando al montaggio di La Pointe courte Alain Resnais paragona le sue immagini a La terra trema di Visconti lei deve ammettere di non conoscerlo. Aveva visto invece Biancaneve, lo detestava – «Non sopportavo quell’idiota che faceva da serva ai sette nani». La Pointe courte è il primo segnale della Nouvelle Vague, precede I 400 colpi di Truffaut e Hiroshima mon amour di Resnais – entrambi del 1959 – André Bazin lo definisce con entusiasmo un film «libero e puro». Lei dirà: «Avevo l’impressione che sullo schermo non ci fosse l’equivalente delle ’rivoluzioni letterarie’ Mi sono ispirata a Brecht o a Faulkner cercando di rompere la costruzione del racconto, di trovare un tono oggettivo e insieme soggettivo». Il suo cinema è già una visione chiara.

NEL 1962 Varda arriva al Festival di Cannes con Cleo dalle 5 alle 7, forse il suo film più conosciuto, in cui il racconto prende forma sulle emozioni di una donna che attende i risultati della biopsia. Oggettivo e soggettivo: la narrazione si concentra sul personaggio di Cléo, e insieme sperimenta le possibilità del tempo cinematografico, la relazione con la realtà e la messinscena. Varda è femminista, i suoi personaggi sono quasi sempre femminili, compresa lei stessa che diviene personaggio nei documentari, nella prima persona della sua esistenza – Les Plages d’Agnès, La Rue Daguerre, fino a Visages/Villages.

«La timidezza delle donne cresce nelle famiglie, nell’ambiente sociale… Le femministe fanno bene a urlare, finché le donne grideranno la società potrà cambiare un po’» diceva prima di ricevere l’Oscar alla carriera, nel 2017. Ma il femminismo coincide in lei col suo sguardo, col suo pensiero di cinema, le permette di creare figure di donne uniche, di esplorare sessualità e allegria, militanza e tristezza, di entrare negli universi emotivi di ciascuno dei suoi personaggi. Di essere artista nella vita, con la vita. È la sua libertà, la sua magnifica rivoluzione.