Nadia Murad è la rappresentante più conosciuta e importante della comunità yazida. Una minoranza di meno di un milione di persone, sparsa fra Medio Oriente, Caucaso, Russia e Europa, che oggi lotta per la sua sopravvivenza.

Scampata – a differenza di migliaia di altre donne yazide – a mesi di torture e abusi come schiava sessuale nella mani del sedicente Stato Islamico, la Murad è riuscire miracolosamente a fuggire. Si è rifugiata prima in Kurdistan e poi in Germania, dove ora vive da più di un anno. Due anni fa ha perso sei dei suoi fratelli, uccisi insieme a altre migliaia di uomini, i cui resti si trovano ancora oggi dimenticati dentro decine di fosse comuni.

Celebre il suo discorso del 16 dicembre 2015 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove ha fatto appello alla comunità internazionale perché riconosca il genocidio in atto contro la sua gente e intervenga.

Candidata al Nobel per la pace a causa del suo instancabile impegno, la Murad si batte per ridare dignità ad un popolo perseguitato da secoli a causa della sua identità religiosa, che si compone di un mix sincretistico di diversi apporti, dal cristianesimo, all’islam fino allo zoroastrismo. Una diversità religiosa che ha contribuito a creare contro di loro un clima di sospetto e diffidenza, esploso di recente in corrispondenza dell’avanzata dell’Isis in Iraq e in Siria.

La Murad collabora con l’organizzazione internazionale Yazda, che si batte anch’essa a favore di questo popolo dimenticato.

Il Baden-Württemberg, il Land tedesco dove oggi vive, è grazie al contributo della Murad uno dei posti al mondo dove c’è una maggiore presenza della comunità yazida. Di recente 1.100 ex-prigioniere dell’Isis sono state accolte insieme alle loro famiglie, su iniziativa del governo verde locale, per essere curate e assistite.