Karen Köhler, insieme alla scrittura, pratica anche la professione di attrice. Nella cifra stilistica del suo esordio letterario questa sua natura di interprete orale, di cantrice di parole emerge in modo netto e sontuoso. Guanda, nella curata traduzione di Margherita Belardetti, pubblica L’Isola di Altrove (pp. 468, euro 19) uscito in Germania l’anno scorso.
La protagonista della storia è una ragazza, di cui non si conosce il nome finché gliene verrà dato uno per amore. La giovane, orfana adottata dal Priore del Tempio del Villaggio di un’Isola che pure non ha nome, fin dalle prime pagine ci racconta il suo essere diversa rispetto a chi come lei abita il Villaggio. La sua differenza non si definisce solo nell’enumerazione delle vere o presunte anomalie corporee ma anche nella scrittura dell’identità.

Bambinamia desidera un nome, perché è lì che sta il legame con la madre che non ha mai conosciuto, ma anche il suo posizionamento all’interno della comunità in cui vive. Questa mancanza verrà colmata in segreto nell’incontro con l’amore e con un’alterità che per una volta non le è ostile. Eppure la giovane protagonista sembra capire che il velamento del sé può essere una scappatoia fruttuosa, una nuova nascita.

Diremmo che la società patriarcale e ultraconservatrice in cui i fatti si svolgono ha dei tratti distopici, talmente terribili e ingiuste sono le dinamiche che la regolano; tuttavia, memori di quanto Margaret Atwood ha spesso dichiarato, possiamo affermare piuttosto che quanto è scritto nell’opera di Karen Köhler non è niente di peggiore di quanto accaduto alle donne nella storia dell’umanità e che accade loro ancora, nell’oggi.

L’Isola e il suo villaggio rappresentano i luoghi in cui è ambientata la storia. All’inizio della narrazione l’Isola sembra un luogo per certi versi paradisiaco, perché intatto rispetto al resto. Nel susseguirsi delle vicende l’Altrove cambia e prende un’altra forma. Vuole dirci di più rispetto all’evoluzione del senso di questi due luoghi?
Si fa esperienza del Villaggio e dell’Isola attraverso gli occhi della protagonista, un’adolescente, trovata e cresciuta dal leader religioso della società. Il villaggio con la sua religione, regole e leggi e i campi circostanti sono tutto ciò che la ragazza conosce del mondo. È il suo mondo. Non sa molto dell’Altrove, dei luoghi e degli spazi mentali di cui tutti parlano così male.
Il romanzo è scritto in prima persona, quindi l’impatto dell’apparizione del mondo che descrive è molto diretto, è quasi come se fossimo nella sua testa; e all’inizio è anche un po’ ingenuo, perché la ragazza non conosce altro. È un’emarginata nella sua società, perché nessuno sa chi siano i suoi genitori, quindi nascono speculazioni sul fatto che lei venga dall’Altrove. L’inverno in cui era stata trovata da bambina era stato molto duro e il gelo ha distrutto i semi nel terreno.

Si dice che la ragazza porti sfortuna e diventa allora il capro espiatorio di questa narrazione scritta dal Villaggio. Interiorizza questa narrazione e tutti i miti che la società racconta su quanto sia pericoloso il mondo al di là del loro villaggio. Tuttavia il suo mondo interiore, protetto dall’esterno, è molto ricco e poetico e in qualche modo intatto. Infrangendo le regole e le leggi, la ragazza impara a leggere e scrivere, cosa vietata a donne e ragazze, sviluppando una visione diversa sulle condizioni esistenti. Il suo mondo si sta restringendo. L’Altrove sta diventando un luogo di nostalgia, dove progetta di avere una vita migliore, una vita più equa senza la sofferenza che vive nel villaggio.

L’Isola e il Villaggio provengono dalla mia fantasia ma sono molto vicini a cosa viviamo oggi, ad esempio all’esclusione di alcuni dalla società. Non è una conquista nascere da qualche parte. Non c’è motivo di essere orgogliosi di questo fatto, perché non è qualcosa che abbiamo meritato. Pertanto i nazionalisti usano spesso questo argomento: nascere da qualche parte o provenire dall’Altrove. Volevo mostrare i meccanismi del potere e come si cerca di preservarlo o di mantenerlo. Volevo mostrare cosa succede quando le donne vengono cancellate dalla narrazione storica, cosa succede quando cessa la laicità e le regole religiose fatte dagli uomini (quelli al potere) prendono il sopravvento.

La giovane protagonista del suo romanzo sembra divisa tra la condizione acquisita di un’invisibilità che il Villaggio le impone e la ricerca di invisibilità come strumento strategico per poter essere e agire in maniera indisturbata.
La protagonista apprende a usare la narrazione del Villaggio a proprio vantaggio: è stupida, certe cose non le può fare, è un’emarginata impotente. La situazione cambia quando inizia a sapere, e perché c’è chi crede in lei. Mariah, una donna anziana che l’ha aiutata a crescere, per sopravvivere le sta insegnando una sorta di mimica: «Non lasciare mai che il Villaggio sappia cosa sei in grado di fare e non avrai problemi inutili!» dice. Così la giovane sta dando al Villaggio l’immagine che si aspettano da lei, diventando invisibile.

Eppure sotto quella superficie sta raccogliendo le sue capacità, diventando molto pericolosa per l’establishment del Villaggio, perché sta imparando a pensare da sola. Dovrà far sua questa narrazione fino a quando non sarà abbastanza forte da difendersi e lasciare questa invisibilità. Aveva bisogno di quel periodo sotto quel mantello protettivo di invisibilità per diventare più forte.
Se si pensa a oggi e a come la maggior parte delle persone stia inconsapevolmente regalando set di dati molto privati su Internet attraverso l’uso dei social media, l’invisibilità è quasi impossibile.

Il desiderio umano di essere accettati, riconosciuti e approvati è sfruttato dal capitalismo per rendere gli utenti consumatori migliori. Questi algoritmi conoscono le nostre azioni future meglio dei nostri partner, familiari o amici intimi. E questo viene infatti sfruttato anche a livello politico.

La scansione dei capitoli della sua opera, delle sue «Centoventotto Strofe» disegnano una modalità di «scrittura sincopata» – di misure brevi – e di «stile formulare» che può ricordare quella di un poema epico. Come definirebbe la sua opera?
Il titolo originale del mio libro è Miroloi, una canzone di lamento del patrimonio popolare ellenico, improvvisata per onorare una persona morta. La ragazza sa che nessuno nel Villaggio le canterà una canzone del genere dopo la sua morte, quindi sta cantando la propria. Il testo è proprio questa canzone scritta e cantata in strofe, come un monologo interiore. Sta raccontando la propria storia, com’è realmente, ne dà testimonianza prima che venga dimenticata. Forse questa è la sua tecnica di sopravvivenza. E sì, in qualche modo tutto ciò è epico ed era nella mia testa così fin dall’inizio.

Senza svelare troppo della storia, può dirci in che misura resistenza rabbia vendetta compongono ordinatamente il climax dei sentimenti?
Ho già detto che la protagonista a un certo punto lascerà il mantello protettivo dell’invisibilità perché è diventato troppo piccolo per lei. A differenza delle altre compaesane, lei – in quanto emarginata esente dalla maggior parte dei diritti – non può avere un nome, quindi non può sposarsi e agire attraverso il proprio marito, come tutte le altre donne cercano di fare. Quindi non c’è sfogo al fumo della rabbia provata per essere trattata così ingiustamente.
Ma ciò la sta portando al suo auto-potenziamento. Nel momento della sua più grande forza trasforma i meccanismi della sua oppressione in un’abilità. Che userà.

Al Villaggio le donne lavorano decisamente più degli uomini, sobbarcandosi oltre agli oneri dei campi quelli del lavoro domestico e della cura. Il mondo rurale che lei tratteggia ha poco di quell’idea bucolica di luogo incontaminato e assomiglia più alla concretizzazione della schiavitù al lavoro e alle leggi degli uomini. A che realtà si è voluta ispirare?
Alla nostra, in cui le donne sono investite dal lavoro ogni giorno della loro vita, nella maggioranza del mondo e specialmente ora in tempi di pandemia: tutto il lavoro di pulizia, lavaggio, cucina, assistenza all’infanzia è svolto principalmente dalle donne, mentre gli uomini continuano a perseguire le loro carriere.
Il lavoro nel Villaggio del mio libro è condiviso, ma non equamente. Inoltre il Villaggio non lo chiama lavoro, lo chiama vita: non c’è differenza per loro in queste due parole.
Mentre gli uomini possono essere legislatori, agricoltori, proprietari di negozi o svolgere attività artigianali, e sono autorizzati a leggere e scrivere, lo spazio per le donne è definito all’interno della casa: prendersi cura dei bambini, cucinare, procurarsi le verdure dai campi. Eppure quella società ha sviluppato una sorta di aspetto sociale del lavoro: il frutto della raccolta delle olive, ad esempio, è condiviso tra tutti. Ogni famiglia ottiene una parte. Il denaro viene distribuito ogni mese, ogni famiglia riceve la stessa somma. Il Villaggio ha escogitato uno strano sistema che lo rende più indipendente possibile dall’Altrove. Gli abitanti del villaggio non sono così alienati dal lavoro come lo siamo oggi.

La maggior parte delle persone oggi si sente evoluta perché può lavorare ma non deve più sporcarsi le mani. Tuttavia qualcuno deve coltivare il nostro cibo. Qualcuno deve scavare la terra per noi. Viviamo in un mondo di schiavitù mascherata. Il capitalismo ci sta ingannando facendoci credere che ci siamo guadagnati ciò che consumiamo. L’Europa sfrutta il mondo da centinaia di anni. Le belle città che abbiamo costruito con i profitti di questo sfruttamento sono un memoriale di questa azione. Il privilegio dei bianchi si basa sul sessismo e sul razzismo. È il momento di cambiare questa situazione e pensare fuori dagli schemi capitalistici.