La storia della tifosa iraniana Sahar, ventinove anni, rimbalza sui media con l’hashtag #blue_girl. È stata soprannominata “la ragazza blu” perché amava vestire la maglia dell’Esteglal di Teheran, la sua squadra del cuore. Il 9 settembre Sahar è morta in un ospedale della capitale iraniana per le ustioni riportate il 2 settembre, quando si è data fuoco per protestare contro la magistratura della Repubblica islamica che l’ha condannata a sei mesi di carcere per essere entrata nello stadio Azadi (in persiano Azadi vuol dire libertà) di Teheran, laddove alle iraniane è fatto divieto di salire sugli spalti dal 1981.

Un divieto che non è legge, ma viene imposto con severità. I giovani non ne comprendono il senso e per questo protestano, mentre per aggirare l’ostacolo le donne si travestono da uomini, come ben ha raccontato il regista iraniano Jafar Panahi nel lungometraggio Offside, ambientato durante il match di ritorno contro gli irlandesi, il 15 novembre 2001, quando l’Iran vince 1-0 contro l’Irlanda ma non si qualifica per i mondiali di Corea e Giappone del 2002.

Nel mese di marzo, Sahar si era tolta il velo e si era messa una parrucca da uomo, aveva cercato così di confondersi tra i tifosi, ma era stata scoperta e arrestata. Con lei, tante altre erano state fermate. Se nel film del regista iraniano Panahi le protagoniste riescono a scappare, il destino di Sahar è diverso: viene arrestata, trascorre tre giorni in cella, esce su cauzione, sei mesi dopo finisce in tribunale senza un avvocato a difenderla. Il giudice non si presenta, forse per un problema in famiglia. Sahar dimentica il cellulare in tribunale, rientra per recuperarlo. Sente qualcuno che parla di una condanna tra i sei mesi e i due anni di reclusione per oltraggio al pudore.

All’uscita dal tribunale di Teheran, la giovane donna si dà fuoco. È il 2 settembre. Il corpo ustionato al novanta percento, un polmone danneggiato. Sahar non ce l’ha fatta. Mentre la FIFA mette pressione all’Iran perché apra gli stadi alle donne entro il 31 agosto, Sahar diventa il simbolo della battaglia affinché la politica non interferisca con lo sport. Nella Repubblica islamica dell’Iran ogni cosa può assumere una connotazione politica. L’arte è dissenso, e il cinema ne è una delle espressioni più popolari, in grado di valicare le frontiere. Basti pensare alle vicende del regista Jafar Panai, preso di mira dalla magistratura di Teheran che da anni gli impedisce di lasciare il paese e rilasciare interviste. Anche lo sport, e in particolare il calcio, possono iscriversi in questo registro.

Gli iraniani, in patria e nella diaspora, sono frustrati per le continue interferenze della politica negli sport. Per questo, l’hashtag #BanIRSportsFederations corre veloce sui social per impedire all’Iran di partecipare alle competizioni internazionali. E persino Masoud Shojaei, il capitano della nazionale di calcio iraniana, ha il coraggio di criticare le condanne comminate alle donne che cercano di entrare nello stadio: lo fa in persiano, su Instagram, in modo da poter raggiungere l’audience più ampia.

Sempre su Instragram, sul suo account da 4 milioni e mezzo di followers il popolare calciatore Ali Karimi (che si è ormai ritirato) ha scritto di voler boicottare gli stadi: il suo post ha ricevuto 100mila like in meno di mezz’ora. Tantissimi altri esprimono rabbia (e solidarietà alla famiglia di Sahar) usando Twitter. Il dibattito limitato ai social è segno della censura di regime, nel momento in cui la pressione esterna su Teheran è ai massimi storici.

Nel 2001, quando le iraniane osavano entrare negli stadi travestite da uomini, il dibattito sull’ingresso delle donne negli stadi della Repubblica islamica aveva invece luogo sulla carta stampata perché il presidente era il riformatore Muhammad Khatami che a Teheran aveva portato la primavera. Dopo l’1-0 della nazionale iraniana contro gli irlandesi, il quotidiano Azad (in persiano Azad vuol dire libero) commentava: “Molte donne vorrebbero entrare negli stadi, ma tanto interesse non significa che quell’attività sia eticamente corretta, basti pensare a quanti piace bere alcol, usare droghe, giocare d’azzardo.

Detto questo, che le donne guardino le partite da casa, in televisione, è senz’altro appropriato: allo stadio i maschi dicono parolacce, tanta volgarità non si addice all’altra metà del cielo”. Il femminile Zanan (in persiano Zanan vuol dire donne) ribatteva, con sarcasmo. Due le vignette. Nella prima una donna, velata, su una terrazza, orienta il telescopio verso lo stadio lontano. Con l’altra mano sventola una bandierina e fa il tifo. La seconda vignetta mostrava la strada che conduce al campo da gioco, a lato i cartelli con un elenco di oggetti che non è consentito portare allo stadio: bottiglie, coltelli, randelli, catene. E donne.

Anche i manager facevano satira. 9 gennaio 2003. Nell’impianto sportivo Iran Khodro, a Teheran, il Peykan ospitava il Barq di Shiraz. Il manager dei padroni di casa, Mahdi Sadras, otteneva che un gruppo di donne potesse accomodarsi in un settore privato. Perché, dopotutto, i sostenitori del Paykan sono particolarmente educati, non dicono parolacce! E poi, dichiarava il manager ai giornali, “la presenza delle donne sugli spalti migliora l’umore dei giocatori”.