La si può raccontare come si vuole, ma quello mosso da Renzi nel comizio finale della Festa del Pd è stato un attacco contro i dissidenti e i recalcitranti del suo partito. Un’invettiva dettata dalla volontà di neutralizzare ogni opposizione interna che nessuna vischiosa profferta unitaria può dissimulare. Chi ha tradotto senza abbellimenti quel discorso ha evocato a ragione una pulsione sterminatrice.

Che cosa abbia indotto il presidente-segretario ad affondare il colpo alla vigilia di un autunno a dir poco problematico non è chiaro. Può avere inciso la nota vocazione autoritaria, forse all’origine del primo drastico calo di popolarità che i sondaggi documentano. Può essersi trattato di un riflesso immediato della più complessiva tendenza in atto alla concentrazione del potere nelle mani del leader massimo. Possono aver pesato anche le crescenti difficoltà in cui si muove il governo, in mezzo al guado in tutte le iniziative sin qui assunte mentre gli indicatori della crisi sociale volgono al peggio e la situazione economica si fa semplicemente allarmante.

Può darsi che, alle strette, il giocatore d’azzardo bluffi e rilanci. Sta di fatto che è evidente l’intenzione di zittire bruscamente i critici – perlopiù riconducibili alla componente post-comunista del Pd – se non di sbarazzarsene una volta per tutte. Se questo è vero, sarà decisiva la risposta che la sinistra democratica darà a questa offensiva. Decisiva non soltanto per le vicende interne del Pd e per le sorti del governo, ma per il paese. Ne va della residua possibilità di porre finalmente le premesse di un’inversione di rotta rispetto a quanto è accaduto in questi sette anni di crisi e già nel corso del trentennio neoliberista.

Tutto dipenderà, per così dire, dall’ordine del discorso. Sarà dirimente la prospettiva nella quale ci si disporrà nella replica. Se si ragionerà (come sempre sin qui) in termini immediatamente (riduttivamente) politici, o invece in chiave politico-storica: in un’ottica occasionale oppure epocale. Il che, a sua volta, rivelerà la concezione di sé che la sinistra del Pd è in grado di mobilitare. Se, cioè, essa si vive essenzialmente – se non soltanto – come un settore del ceto politico, preoccupato soprattutto della propria persistenza, oppure ha l’ambizione di concepirsi come un soggetto politico responsabile, in campo in una delicatissima fase di trasformazione degli assetti di comando della società che vede in discussione le stesse sorti della democrazia in Italia e in Europa.

Per rispetto della verità e di noi stessi, dobbiamo ammettere che l’esperienza sconsiglia di nutrire soverchie speranze al riguardo. Ma non possiamo nemmeno escludere che qualcosa di nuovo accada, interrompendo una lunga sequenza di arretramenti e di compromissione. Renzi ha il merito – se vogliamo – della brutalità. Nessuno può nascondersi la radicalità del suo disegno, e ciò dovrebbe aiutare a capire che questo è uno di quei casi in cui la cautela massimizza i pericoli. Se i suoi oppositori accettassero l’invito a collaborare alla gestione della linea del segretario, si consegnerebbero in vincoli al suo potere, firmando così la propria estinzione politica di fatto. Al contrario, optare per l’autonomia, guardare in faccia la natura dello scontro, raccogliere la sfida e lavorare per un progetto alternativo, tutto ciò sarebbe di certo molto rischioso. Ma potrebbe rivelarsi l’unica strada per salvarsi, quindi la meno avventurosa.

Ma c’è un ma. Scegliere l’autonomia e il conflitto implica un compito che il gruppo dirigente post-comunista ha sin qui accuratamente evitato, e che appare oggi indifferibile. Non è possibile porsi come soggetto alternativo al progetto restauratore del presidente del Consiglio senza fare un bilancio delle scelte politiche e culturali compiute a partire dai primi anni Ottanta, quando si abbatté sul paese la prima onda d’urto del reaganismo. E quando in tutta Europa le forze socialiste avviarono – per iniziativa, appunto, dei propri gruppi dirigenti – una mutazione genetica che le avrebbe di lì a poco poste alla testa della «modernizzazione neoliberista». Della rivincita del privato sul pubblico. Del capitale sul lavoro. Delle élites sui corpi sociali. E dell’imperialismo militare dell’Occidente sui principi di pace scritti nelle Costituzioni democratiche e antifasciste.

In tutto il comizio di Renzi a Bologna c’è un elemento di verità, ed è l’attacco agli esperti e ai tecnici che in questi vent’anni non hanno visto – o hanno finto di non vedere – che cosa stava accadendo. Lui, beninteso, la regressione al nuovo regime oligarchico sta facendo di tutto per accelerarla. Come osservava Claudio Gnesutta nel penultimo inserto di Sbilanciamoci! pubblicato dal manifesto, siamo nel pieno di una transizione organica verso una società di mercato. Questo è l’obiettivo strategico della politica economica del governo, praticata d’intesa con la buro-tecnocrazia comunitaria. Ma ciò non toglie che anche chi in questi vent’anni ha preceduto Renzi alla guida del centro-sinistra e in posti-chiave nel governo del paese ha lavorato in questa direzione.

Basti un esempio. Pier Carlo Padoan non è soltanto il ministro dell’Economia di Renzi, che chiede a gran voce altri tagli alla spesa e «riforme strutturali»: riduzioni del welfare, compressione dei salari e privatizzazioni. È anche colui che ieri (l’anno scorso), da capo-economista dell’Ocse, reclamava il taglio dei salari italiani, già tra i più bassi d’Europa. E che l’altroieri prestava i suoi servigi come consigliere economico dei presidenti del Consiglio Amato e D’Alema. Del resto, negli anni Novanta la mutazione genetica della socialdemocrazia – o la sua eclisse – non è stata certo un’anomalia italiana. Se oggi il Regno Unito rischia di perdere pezzi, ciò si deve in gran parte agli effetti socialmente devastanti del blairismo, a una concezione dell’efficienza e del presunto merito che ha sistematicamente sacrificato i diritti sociali ai privilegi delle oligarchie. Il che per contro non significa che allinearsi alla tendenza fosse inevitabile, quasi che un incoercibile destino imponesse di innamorarsi del neoliberismo.

Riprendere in mano la storia di questi ultimi decenni è necessario perché soltanto ponendosi sul terreno storico è possibile comprendere la portata del conflitto che oggi attraversa il Pd renziano e, in generale, le forze di quello che un tempo era il centrosinistra. Di sicuro ripensare criticamente alle scelte compiute e agli errori commessi è un travaglio. Ma potrebbe essere anche un cimento liberatorio, capace di dar vita a un’impresa di ben più vasta portata e per la quale varrebbe davvero la pena d’impegnarsi.

Raccogliere in tutte le sue implicazioni la sfida lanciata da Renzi non darebbe vita soltanto a un confronto tra le diverse anime del partito, indispensabile per restituire dignità e credito alle componenti che l’attuale leadership intende mettere sotto tutela. Ne deriverebbe anche la ripresa del discorso interrottosi, oltre vent’anni fa, con lo sciagurato smantellamento del Pci. Che – quali che fossero le intenzioni dei suoi artefici – ha innegabilmente comportato l’estinguersi di qualsiasi rappresentanza politica del lavoro. E ne discenderebbe altresì, con ogni probabilità, un benefico sommovimento dell’intero campo della sinistra italiana, oggi frantumato in un arcipelago di piccole organizzazioni (piccole, beninteso, e perciò ininfluenti, anche per loro diretta responsabilità).

Mettere al centro della discussione e sottoporre a critica un’idea di modernità che ha coinciso con l’abbandono del conflitto sociale e di lavoro e col reinstaurarsi del potere pressoché assoluto del capitale privato significherebbe non soltanto ripercorrere i peggiori anni della nostra vita ma anche riaprire una prospettiva di lotta senza la quale è impensabile arrestare la deriva post-democratica. Da qui oggi si può e si deve ripartire, sfruttando la radicalità dell’attacco renziano. Per restituire finalmente al paese una sinistra politica capace di stare in campo nel conflitto in atto, ed evitare che a lucrare sui contraccolpi sociali della crisi sia, anche in Italia, la destra neofascista xenofoba e razzista.